Analogia
Alberto Strumìa
Concilio Lateranense IV, DH 806; Concilio Vaticano I, DH 3016; Providentissimus Deus, DH 3283; Divino afflante Spiritu, DH 3826; Humani generis, DH 3887; Dei Verbum, 12; Fides et ratio, 19.
I. Che cos’è l’analogia? - II. L’analogia nella logica e metafisica aristotelico-tomista - III. Analogia e teologia
1. Significato comune del termine analogia. Il termine «analogia», nell’accezione comune della lingua italiana odierna, sta ad indicare un «rapporto di somiglianza tra alcuni elementi costitutivi di due fatti od oggetti, tale da far dedurre mentalmente un certo grado di somiglianza tra i fatti e gli oggetti stessi» (G. Devoto, G.C. Oli, Il dizionario della lingua italiana, Firenze 1990). Recentemente è divenuto, poi, di uso assai frequente, con un significato tecnico, l’aggettivo “analogico”, contrapposto a “digitale”, o “numerico” in riferimento a due diversi modi di operare delle apparecchiature elettroniche. L’origine del termine «analogia», come suggerisce la sua radice greca (analoghía), è però molto più antica e si fonda sul concetto matematico di “proporzione” (a : b = c : d) che stabilisce una similitudine dovuta ad una uguaglianza di rapporti. Si pensi, per esempio, alla similitudine di due triangoli i cui lati stanno in un rapporto prefissato. Il suo trasporto dalla matematica alla logica e alla filosofia risale a Platone (427-347 a.C.) che tuttavia non ne elabora una teoria. Sarà Aristotele (384-322 a.C.) a darne una formulazione sistematica nell’ambito della logica. Nel medio evo Tommaso d’Aquino porterà a compimento l’opera aristotelica con un intento nel contempo filosofico e teologico. Nelle epoche successive l’analogia sarà sempre meno compresa, a partire dai nominalisti, e via via abbandonata nella logica e nella filosofia, e ridotta nella sua portata fino ad essere identificata come una semplice “metafora” letteraria. Ed è in questo senso che oggi, là dove se ne parla, essa viene fatta normalmente rientrare nel contesto disciplinare dell’ermeneutica.
2. Analogia e logica. L’esigenza di introdurre l’analogia, nel quadro del pensiero greco, sembra nascere simultaneamente da due ordini di problemi: l’uno strettamente “logico-linguistico”, l’altro più propriamente “metafisico”. Dal punto di vista logico-linguistico Aristotele, come più tardi Tommaso, partono dalla constatazione che nel linguaggio comune — che esprime e quindi riflette all’esterno la struttura del procedimento del pensiero — uno stesso termine (“predicato”) può essere attribuito a diversi soggetti in modo “univoco”, “equivoco” o “analogo”. Nel primo caso il predicato ha esattamente lo stesso significato per l’intera classe dei soggetti ai quali viene attribuito: ad esempio quando si dice «Tizio è un uomo», «Caio è un uomo», il termine “uomo” corrisponde alla stessa definizione “animale razionale” in entrambi gli esempi. Nel secondo caso, al contrario, lo stesso termine viene impiegato con significati completamente differenti e tra loro non realmente correlati: come quando si dice «questo animale è un toro», «questa superficie geometrica è un toro». In questo secondo caso il termine “toro” corrisponde a definizioni diverse in ciascuno dei due esempi: nel primo si tratta di un “bovino maschio adulto”, nel secondo di una “superficie di equazioni parametriche x = (R + r cos u) cos v, y = (R + r cos u) sin v, z = r sin u riferita ad una terna cartesiana ortogonale Oxyz di assi di simmetria”. Di conseguenza l’impiego della stessa parola per designare oggetti diversi è puramente convenzionale, tanto che l’equivocità può essere legata alla lingua nella quale ci si esprime e scomparire se si usa un’altra lingua. Nel terzo caso, infine, lo stesso termine viene impiegato con significati differenti tra loro, ma in qualche modo realmente correlati, per cui l’uso dello stesso termine denota una somiglianza reale e non una mera scelta convenzionale: ad esempio, come quando si dice «Einstein è stato geniale», «la teoria della relatività generale è geniale». Propriamente parlando solo un uomo può essere geniale, ma una teoria può essere detta tale in quanto espressione, “effetto reale” dalla genialità del suo autore (e non per pura convenzione!).
3. Analogia e metafisica. Il secondo ordine di problemi che hanno condotto all’analogia non è puramente logico o linguistico, ma è propriamente metafisico, in quanto è insito nelle cose e si trasferisce successivamente al pensiero e al linguaggio che cercano di cogliere la realtà ( REALISMO). I pensatori greci si sono trovati di fronte al problema di conciliare due dati dell’ esperienza che apparivano contraddittori: l’“essere” delle cose e il loro “divenire”, o in termini fisici il “moto”. Una soluzione “monistica” del problema — cioè fondata sull’assunzione che la realtà si regga su di un solo principio costitutivo (sia esso materiale o immateriale) — richiede di accettare che uno dei due dati dell’esperienza sia apparente: se si ammette la realtà solo dell’essere, come un unico stato indifferenziato, questo non potrà mai essere che se stesso, non potendo mutare in qualcos’altro da sé, e non si riesce a dare una spiegazione dell’esperienza del moto che ci si presenta, al contrario, come il passaggio da uno stato ad un altro e si deve dire che questo passaggio non è reale, ma pura apparenza (è la soluzione proposta da Parmenide, VI-V sec. a.C.). E rimane comunque il problema di capire che cosa produce in noi questa apparenza. Se, viceversa, si ammette solo la realtà del divenire bisogna ammettere la contraddizione che il divenire, per il solo fatto che è, coincide con l’essere, che la molteplicità coincide con l’uno, che il nulla, cioè il non essere è uno stato dell’essere e il divenire è il continuo alternarsi di questi due stati contraddittori. Ma ammettere la contraddizione comporta, in ultima analisi, l’impossibilità della conoscenza (è la conclusione estrema alla quale perviene Cratilo, seguendo la via aperta da Eraclito, VI-V sec. a.C.). Per spiegare compiutamente l’esperienza che l’uomo fa delle cose occorre, perciò, ipotizzare che l’essere si possa dare in più “stati differenziati” che costituiscono una gamma di modi di esistenza, che si interpongono tra l’essere nella sua pienezza assoluta (Dio, Atto puro) e la sua totale assenza (il nulla). Al dato metafisico che suppone l’essere come attuato (partecipato) in gradi e modi differenziati nelle cose che sono, corrisponde dal punto di vista logico e nel linguaggio una nozione analogica di “ente” — “ente” è ciò che ha l’“essere” e “essere” è il principio per cui l’ente è — termine che si predica in modo differenziato, ma non equivoco, dei diversi soggetti: così alla teoria metafisica della partecipazione corrisponde la teoria dell’analogia sul piano della logica.
II. L’analogia nella logica e metafisica aristotelico-tomista
Nella logica aristotelico-tomista si danno, in origine, tre tipi principali di analogia (anche se ulteriori distinzioni sono state introdotte dalle scuole successive): l’analogia di “attribuzione”, o di “proporzione semplice”, l’analogia di “proporzionalità propria”, o “intrinseca” e l’analogia di “proporzionalità impropria”, o “estrinseca ”, o “metaforica”.
1. L’analogia di attribuzione o di proporzione semplice. L’analogia di attribuzione viene presentata solitamente con un esempio classico: «Tizio è “sano”, il suo colorito è “sano”, il cibo è “sano”, l’aria è “sana”». Osservando l’esempio notiamo che la caratteristica di essere “sano” è propria solo di Tizio che, essendo l’unico vivente, è l’unico soggetto di cui si possa dire che goda buona salute. Degli altri soggetti non si può dire questo propriamente perché non sono degli esseri viventi. Questi altri soggetti si possono dire in qualche modo “sani” solo in riferimento al buono stato di salute di Tizio, il quale solamente e propriamente è soggetto del predicato “sano”. Per questa ragione Tizio viene detto “primo analogato” o “sommo analogato” o “analogato superiore”.
Per quanto riguarda gli altri soggetti si può individuare la relazione che hanno con l’essere sano di Tizio: il colorito sano è indizio del suo buono stato di salute di Tizio, in quanto ne è un “effetto”. Il cibo sano è quello che favorisce la buona salute di Tizio come una delle sue “cause”. Va ben compreso che il riferimento al primo analogato non è convenzionale, o occasionale, ma è fondato sulla realtà e confermato dall’esperienza (dal fatto che realmente un cibo sano contribuisce alla buona salute di chi se ne nutre, realmente un colorito sano è il segno del buono stato di salute, e così via) e per questo il cibo, il colorito, il clima si dicono “analogati inferiori”. È questo riferimento, fondato sulla realtà, che permette all’attribuzione di non essere semplicemente “equivoca”. Le cose, le realtà sono e restano diverse, ma il nome comune del predicato esprime qualità che, pure in se stesse diverse, sotto un certo aspetto hanno un rapporto diretto con la medesima qualità che è quella del primo analogato (cfr. Summa theologiae, I, q. 13, a. 5 c).
2. L’analogia di proporzionalità propria o intrinseca. Anche questo secondo tipo di analogia, viene solitamente illustrata partendo da un esempio classico che consiste nel paragonare la vista con l’intelligenza. Noi utilizziamo spesso l’idea della “visione” sia in riferimento alla “vista dell’occhio” che al “capire della mente”. Così diciamo per esempio: «La luce della verità illumina la mente», «capire a prima vista», «una visione filosofica della realtà». Abbiamo, in questi esempi, un termine che esprime un’azione (vedere) che attribuiamo a due soggetti diversi (l’occhio e la mente). In questo tipo di analogia la somiglianza viene stabilita non più tra i significati dello stesso predicato attribuiti ai diversi soggetti, ma tra le “relazioni”, o “rapporti” che intercorrono tra il predicato e i soggetti. Questa somiglianza di relazioni, o di rapporti si può esprimere con una formula che ricorda quella di una proporzione matematica: «Il “vedere” sta all’“occhio” come il “capire” sta alla “mente”». Tuttavia, mentre in matematica, quando scriviamo una proporzione, stabiliamo che i due rapporti sono “uguali” (2:3 = 4:6), nel caso dell’analogia di proporzionalità affermiamo che i due rapporti soggetto-predicato non sono uguali ma “somiglianti” (cfr. De Veritate, q. 2, a. 11 c). Va sottolineato, poi, che l’azione che viene attribuita ai soggetti è realmente connessa con ciascuno di essi. La capacità di vedere è intrinseca all’occhio e la capacità di capire è intrinseca alla mente: per l’uno e per l’altra si tratta di una capacità naturale, di una facoltà propria, quindi posseduta realmente. Per questo si parla di analogia di proporzionalità “propria” o “intrinseca”. Notiamo che in questo tipo di analogia non si danno né un primo analogato, né degli analogati inferiori: abbiamo invece un rapporto soggetto-qualità che si verifica propriamente per un soggetto (l’occhio nel caso della visione) e in modo “simile” per l’altro soggetto (la mente). Il vedere conviene propriamente all’occhio, non alla mente. Si può dire, allora, che ciò che tiene, in certo modo, il posto di un primo analogato non è un soggetto a cui si attribuisce propriamente il predicato, ma una relazione tra un soggetto (l’occhio) e un predicato (capace di vedere).
3. L’analogia di proporzionalità impropria o estrinseca o metaforica. Il terzo tipo di analogia è la “metafora”. Si tratta di un’analogia che, a differenza delle due precedenti, non si basa su un vero e proprio fondamento reale della somiglianza che istituisce, ma si basa piuttosto su una somiglianza ravvisata dal soggetto conoscente, che non trova nella natura dei soggetti e del predicato alcuna relazione di causa-effetto, né una somiglianza reale nei loro rapporti. Propriamente parlando non è una vera analogia, ma possiamo considerarla tale in senso lato, o improprio. Un esempio tipico per illustrarla è il seguente: «Tizio ha un coraggio da leone». Anche in questo caso abbiamo implicitamente una sorta di proporzione: possiamo, infatti, riformulare l’esempio in questi termini: «Tizio è così coraggioso come il leone è coraggioso». Osserviamo subito che la qualità “coraggioso” per cui Tizio è paragonabile al leone è una qualità che viene riconosciuta al suo massimo grado nel leone: questo ricorda in un certo senso l’analogia di attribuzione. Tuttavia c’è una differenza fondamentale: non c’è alcun legame di causa-effetto tra il coraggio del leone e quello di Tizio, in quanto Tizio non è reso coraggioso da alcuna partecipazione al coraggio del leone. Non si può parlare quindi di analogia di proporzione. È piuttosto una somiglianza che il soggetto conoscente riconosce, come dall’esterno, tra il coraggio di Tizio e il coraggio del leone. In questo caso abbiamo, piuttosto, una somiglianza di relazioni, o di rapporti tra il soggetto e la sua qualità, come in un’analogia di proporzionalità. Tuttavia non si può parlare neppure di una vera analogia di proporzionalità propria. Infatti per avere un’analogia di proporzionalità “propria”, la proporzione da istituire dovrebbe essere: Tizio sta al coraggio (di Tizio) come il leone sta al coraggio (del leone), mentre nell’analogia di proporzionalità impropria, a Tizio viene attribuita la stessa qualità di coraggio propria del leone (coraggio leonino). Propriamente parlando Tizio ha un coraggio umano, mentre gli viene attribuito un “coraggio da leone”. Si tratta di una sorta di attribuzione “estrinseca”, in quanto si attribuisce alla dote naturale di Tizio un carattere che è naturale e proprio del leone (cfr. Summa theologiae I, q .13, a .3, ad 1um).
4. L’analogia entis. La scoperta fondamentale della metafisica antica è stata probabilmente proprio l’analogia dell’ente (analogia entis). A differenza dei “generi” che, dal punto di vista logico si formalizzano nei concetti “universali”, che si predicano in modo “univoco” dei diversi soggetti — come “uomo” che si dice con identico significato di Tizio, Caio e Sempronio — “ente” si predica in modo “analogo” dei diversi soggetti, collocandosi al di sopra dei generi e dei concetti universali che li descrivono (cfr. Aristotele, Metafisica, III, 998b, 22-27).
Notiamo qui due aspetti rilevanti: a) In particolare “ente” si dice secondo un’“analogia di proporzionalità propria” di un oggetto (sostanza) e delle sue proprietà (accidenti). Questo deriva dal fatto che una proprietà è sempre proprietà “di qualcosa”, può esistere solo “in altro” e non per se stessa. Un colore, un’estensione, una temperatura esistono sempre e solo in un oggetto, mentre un oggetto possiede un’esistenza autonoma. Così si deve dire che una proprietà sta al suo modo di essere in maniera simile a come un oggetto sta al suo modo di essere, ma i due modi non sono identici, pur avendo in comune il fatto di essere. b) Inoltre “ente” si dice di un oggetto limitato, che ha l’essere per partecipazione, e lo si dice secondo un’analogia di proporzione rispetto all’Atto puro che è l’essere per se stesso ed è la causa dell’essere dell’oggetto limitato. Un comportamento simile a quello di “ente” è cartatteristico anche delle nozioni superuniversali di “vero”, “uno”, “bene” che insieme ad “ente” vengono dette “trascendentali”.
5. Crisi dell’analogia. L’analogia che vede il suo massimo sviluppo e utilizzo con Tommaso d’Aquino, conosce, già con i suoi contemporanei, le premesse della sua futura crisi. Infatti, a partire proprio dal XIII secolo, le due grandi scuole del pensiero filosofico-teologico che hanno sede a Parigi, dove hanno operato prima Alberto Magno (1200 ca.-1280) e poi il suo discepolo Tommaso, e a Oxford, dove vediamo all’opera tra gli altri Ruggero Bacone (1214-1292) e Roberto Grossatesta (1175-1253), poi Giovanni Duns Scoto (1275-1308) e Guglielmo di Ockham (1280-1349), si trovano a confronto e di fatto seguiranno vie diverse senza comprendersi. La linea aristotelica, seguita da Alberto e Tommaso, acquisterà grande rilievo soprattutto per la teologia cattolica e, tre secoli dopo, sarà accolta ufficialmente, in buona parte, dalla Chiesa nel Concilio di Trento (1545-1563), mentre la linea platonica, prevalente ad Oxford, si concentrerà, a partire da Ruggero Bacone sul problema della matematizzazione delle scienze, creando le premesse remote metodologiche per lo sviluppo della scienza moderna.
Ha inizio, così, quel graduale allontanamento del pensiero scientifico sempre più univoco — in quanto matematizzato — da quello metafisico e teologico, analogico. Scoto risolverà l’analogia dell’ente in una molteplicità di univoci così come Ockham dissolverà la realtà dell’universale in un puro nome (nominalismo) negandogli un’esistenza reale extramentale. Questa operazione, otterrà poi, con il successo della scienza galileiana e newtoniana una ricaduta anche sul pensiero filosofico, attraverso Descartes (1596-1650) prima e Kant (1724-1804) poi, fino alla dissoluzione della possibilità stessa di una metafisica come scienza e di conseguenza di una teologia come scienza sistematica. Da qualche decennio, tuttavia, assistiamo ad una novità nel campo delle scienze che sembrano ricercare, in qualche modo di ritrovare l’analogia per poter adeguatamente affrontare nuovi problemi legati sia alla teoria dei fondamenti logici e matematici delle scienze, sia alla complessità delle strutture auto-organizzantesi. Anche se è ancora presto per pronunciarsi, si direbbe che l’analogia, inizialmente esclusa dal pensiero scientifico per timore dell’equivocità, chieda ora uno spazio ed una formulazione teorica il più possibile adeguata.
III. Analogia e teologia
Il ricorso all'analogia in teologia si rende necessario per molteplici ragioni. Non potrebbe essere diversamente, in quanto la ragione umana, di per sé creaturale, può accostarsi al mistero di Dio solo conservando la distanza fra creatura e Creatore, riconoscendo cioè che si può parlare di Lui non certo in modo univoco, ma neanche equivoco, bensì “analogo”. Nel contesto di una metafisica dell'essere, l'analogia entis consente di accedere all'esistenza di Dio come fondamento dell'essere delle cose e di poter predicare di Dio attributi e perfezioni che si riconoscono presenti, in modo partecipato, nelle sue opere. Ma è lo stesso linguaggio della rivelazione divina, così come presentato dalla Sacra Scrittura, a ricorrere all'analogia in varie delle sue forme sia proprie che improprie, come lo sono ad esempio la metafora, ma anche la “parabola”, per esprimere, servendosi di concetti umani, ciò che di per sé resterebbe trascendente ed inesprimibile. Il linguaggio analogico viene poi utilizzato dalla teologia nel suo tentativo di accostarsi, mediante il ricorso ad immagini e paragoni, ai misteri della fede, ma anche per collegarli fra di loro, cogliendone così l'intima coerenza nel piano salvifico di Dio.
1. La conoscenza di Dio e i nomi divini. Le applicazioni dell’analogia alla teologia si collocano dunque a diversi livelli. Il primo problema che si pone è quello della conoscenza di Dio, sia al livello della sola ragione umana ( DIO, IV.1) che al livello della fede che si fonda sulla conoscenza rivelata di Dio. La teologia ha percorso, tradizionalmente due vie a questo scopo: la prima è la via “apofatica” o “negativa”, tipica della tradizione dell’oriente cristiano, che pone l’accento sul fatto che di Dio possiamo conoscere con certezza ciò che “non è” piuttosto che quello che è. Seguendo questo approccio dalla nozione di Dio viene esclusa, ad esempio, la composizione e quindi la corporeità, la limitatezza, ogni forma di imperfezione, e così via. A questa teologia negativa l’occidente cristiano, trovando appoggio nel riferimento esplicito all'analogia contenuto nel Libro della Sapienza (cfr. Sap 13,5), ha affiancato una teologia “positiva” ( SAPIENZA, LIBRO DELLA, III.3). Basandosi sull’analogia di proporzione semplice, essa permette di riconoscere in Dio una somiglianza con le perfezioni che riscontriamo nelle creature, quali effetti il cui analogato principale è Dio stesso (cfr. Summa theologiae, I, q. 12). Si tratta di una approccio conoscitivo che certamente non dissolve il mistero in quanto, come ricorda il Concilio Lateranense IV, «fra il Creatore e la creatura, per quanto grande sia la somiglianza, maggiore è la differenza» (DH 806).
Un altro problema classico della teologia, strettamente legato a quello della conoscenza di Dio, è quello degli appellativi che si possono attribuire correttamente a Dio (“nomi divini”). Già trattata nel De divinis nominibus dallo pseudo-Dionigi, la tematica viene svolta compiutamente da Tommaso d’Aquino, il quale farà giocare ancora all'analogia un ruolo determinante. Anzitutto egli stabilisce che non vanno attribuiti a Dio i nomi che designano ciò che certamente Dio non è (imperfezioni e limiti ontologici e morali). Poi, dal momento che l’uomo si esprime necessariamente attraverso un linguaggio che denomina primariamente le creature, noi possiamo attribuire a Dio gli appellativi con i quali designiamo le perfezioni delle creature, ma solo analogicamente. Queste ultime, infatti, sono un effetto rispetto a Dio che ne è la causa, una causa che non è conosciuta da noi direttamente. Non possiamo parlarne univocamente perché Dio è una causa infinitamente superiore ai suoi effetti e trascende la loro natura, non rientrando in alcun genere; non equivocamente in quanto c’è un rapporto di causa-effetto, una relazione reale da parte delle creature nei confronti di Dio. Così i nomi delle perfezioni di Dio si dicono secondo un’analogia di proporzione essendo Dio l’analogato principale: quando si dice che Dio è “buono”, lo si dice più propriamente di Dio che è buono in se stesso, che delle creature che lo sono per partecipazione. Altri nomi vengono poi attribuiti a Dio solo metaforicamente: questo accade quando si designa una perfezione attraverso il nome della creatura che la possiede e si attribuisce a Dio il “nome della creatura” anziché quello della perfezione, intendendo riferirgli la perfezione. Ciò avviene ad esempio quando la Sacra Scrittura chiama Dio con gli appellativi di “roccia” o “leone” intendendo attribuirgli le perfezioni della roccia e del leone (cfr. Summa theologiae I, q. 13).
2. Esempi di analogia nella Scrittura. È proprio il linguaggio della Sacra Scrittura ad offrire, mediante i suoi diversi generi letterari, una notevole ricchezza di analogie e di metafore. Ciò è dovuto, come già segnalato, alla necessità di esprimere con parole umane che si rifanno all’uso di termini legati primariamente alle creature, dei contenuti che riguardano la realtà trascendente di Dio, che la sola ragione non potrebbe raggiungere e che non sono oggetto di esperienza comune. È Dio a comunicare il suo volere ed i suoi progetti mediante immagini che fanno appello all'analogia. Ad Abramo si chiede di capire l'estensione della discendenza di cui è chiamato ad essere padre fecendo, se può, un'analogia con l'immenso numero delle stelle del cielo e della sabbia del mare (cfr. Gen 15,5 e 22,17). Il profeta Geremia, un esempio fra i molti possibili, invitato da Dio a guardare come un vasaio modella e quindi distrugge l'opera delle sue mani, per rifarla poi nuovamente, deve così comprendere, per analogia, il rinnovamento che Dio compirà con la casa di Israele (Ger 18,1-4). Saranno poi i profeti stessi a parlare al popolo mediante numerose immagini ed analogie, servendosi di quanto accade nella natura, nella storia personale o nella storia dei popoli (Ez 31,1-14; Os 1,2-9; Dan 2,31-45).
Gesù impiegherà con frequenza il linguaggio delle “parabole” per descrivere, con immagini efficaci e coerenti, la realtà del Regno, al fine di renderlo comprensibile ai suoi ascoltatori. L’espressione «Il Regno dei Cieli [o di Dio] è simile a…» è di uso ricorrente nei Vangeli (cfr. Mt 13,1-51; Mc 4,1-34; Lc 8,4-18). Questo paragone si fonda su un’analogia di proporzionalità. L'impiego di immagini e di metafore istituisce una similitudine tra una realtà nota ed una ignota, o di più difficile comprensione, favorendo la trasposizione di proprietà o di relazioni dall'immagine più nota a quella meno nota. La parabola viene più spesso rappresentata sotto forma di un racconto la cui forza argomentativa consiste nel presentare la narrazione di un fatto — spesso non accaduto, ma verosimile — che l’ascoltatore può comprendere bene e a partire dal quale è indotto, dalla logica, a trarre certe conclusioni. Le conclusioni tratte, in forza dell’analogia, vengono poi applicate anche in questo caso alla realtà inizialmente ignota per farne comprendere alcuni aspetti fondamentali. Il linguaggio delle metafore e delle parabole, o se si preferisce della “narrazione”, è particolarmente confacente alla persona umana, immersa in una storia ove, al di là di molti elementi cangianti, è sempre possibile identificare una serie di relazioni stabili fra l'uomo e le cose, o degli uomini fra di loro, che possono essere utilizzate come coordinate logiche, cosmologiche ed antropologiche, per trasmettere un certo messaggio. Non sorprende pertanto che la Parola di Dio, che di tale struttura conoscitiva e comunicativa ne ha assunto, insieme all'umanità del Verbo, la storia e la logica, vi ricorra come ad una sorta di “linguaggio umano fondamentale”.
Da un punto di vista ermeneutico, il linguaggio analogico mostra nella Scrittura un utilizzo specifico, riconoscibile ad esempio da quello del linguaggio simbolico, pur largamente presente. Nel primo caso è sempre presente un analogato, mentre nel secondo siamo in presenza di un rimando operato oltre i limiti del linguaggio umano, di un segno che indica una realtà diversa da quella conosciuta, cui dirigersi con categorie nuove, non analoghe. Da un punto di vista più generale, va osservato che il simbolo resta incompleto senza l'ausilio dell'analogia. Sebbene più flessibile perché libero dal riferimento ad un analogato, esso corre il rischio di rimandare costantemente fuori di sé, verso altri simboli ancora, lasciando sempre sfuggire l'ultimo orizzonte di comprensione.
3. Utilizzi dell'analogia in teologia. Un uso frequente dell'analogia in teologia lo incontriamo in ecclesiologia, a proposito delle “figure della Chiesa” (cfr. ad es. l’impiego fattone dal Magistero nella Lumen gentium, 6). Il mistero della Chiesa, che trae la sua origine dal mistero della volontà salvifica di Dio Padre, rivelata e compiuta mediante le missioni del Figlio e dello Spirito Santo, partecipa della ricchezza e trascendenza di Dio. Per essere espressa, la realtà della Chiesa necessita anch'essa di analogie di proporzionalità intrinseca od estrinseca. Basandosi su un fondamento biblico e sulla predicazione dei Padri della Chiesa, la teologia propone una serie di immagini: la Chiesa è un gregge guidato da un pastore, la vigna del Signore, una casa edificata sulla pietra angolare che è Cristo, il regno, la famiglia e la dimora di Dio, ma soprattutto è il popolo di Dio e il Corpo di Cristo. Di quest'ultima analogia, verrà osservato, si deve però predicare in senso proprio e non solo metaforico (cfr. Lumen gentium, 7; Pio XII, Mystici corporis, 29.6.1943). Il rapporto fra Cristo e la sua Chiesa viene inoltre paragonato a quello dello sposo con la sua sposa, ma anche a quello del capo con il suo corpo. La particolarità di tali immagini analogiche sta nel fatto che nessuna di esse, da sola, risulterebbe adeguata ad esprimere il mistero della Chiesa (visibile ed invisibile; terrena ed eterna; una, eppure presente in molti luoghi; distinta dal suo sposo, eppure una sola cosa con il suo Capo...), mentre tutte insieme possono concorrere a delucidarne caratteri e proprietà.
Esempi classici di applicazioni dell’analogia sono quelli che si riferiscono alla dottrina sui sacramenti: essi vengono paragonati, quali tappe della “vita cristiana”, alle varie fasi della “vita naturale”, sia personale che sociale, secondo un’analogia di proporzionalità propria. Così il Battesimo è come la “nascita” nella vita cristiana, la Confermazione come il “farsi adulto” del battezzato, l’Eucaristia come il “cibarsi” per il cammino della vita spirituale, e così via (cfr. ad es. Summa theologiae, III, q. 65). Nella vita della grazia poi, il peccato è paragonato alla morte, perché ne vengano intesi gli effetti sull’ anima spirituale, in analogia con quanto la morte determina sul piano corporale. Pur con i limiti propri di qualsiasi paragone, si tratta di utilizzi che hanno senza dubbio favorito la comprensione dei misteri della fede e facilitato la loro trasmissione.
All'interno dei rapporti fra fede e pensiero scientifico, meritano interesse quelle analogie teologiche impiegate lungo la storia per comprendere il rapporto fra la fede e la ragione o, anche, fra la filosofia e la teologia. Nel pensiero medievale si è parlato della filosofia come ancella della teologia. Non di rado presentato in modo riduttivo e strumentale, tale paragone suscitò la reazione ironica di Kant, il quale osservò che l'ancella avrebbe dovuto in realtà precedere la sua signora, come una torcia, per illuminarle la strada. Ma il rapporto fra la fede e la ragione è stato anche visto come una relazione sponsale, sulla scorta di un'immagine già usuale per descrivere il rapporto fra natura e grazia, riservando tuttavia una maggiore dignità alla fede-sposo. La teologia contemporanea parla volentieri dell'analogia mariologica e di quella cristologica. Seguendo la prima analogia, la fede-parola-Spirito viene accolta dalla ragione-ascolto-Maria, generando il frutto della teologia, qui indicata in senso forte come sapienza che partecipa, in forza della Rivelazione, della Sapienza increata che è Cristo. Nella analogia cristologica, la ragione e la fede sono viste in rapporto come lo sono la natura umana e la natura divina nella persona del Verbo di Dio fatto uomo ( GESÙ CRISTO, RIVELAZIONE E INCARNAZIONE DEL LOGOS). Come l'umanità di Cristo offre espressione visibile e storica alla natura e alla Persona divine, così la filosofia e la ragione offrono alla teologia e alla fede il linguaggio necessario per esprimere, in modo evidentemente limitato ed incompleto, però vero, ciò che si conosce per fede, ed appartiene perciò alla trascendenza di Dio.
Dal punto di vista della storia della teologia e dei suoi rapporti col pensiero scientifico, va menzionato il saggio di Joseph Butler (1692-1752) L'Analogia della Religione, naturale e rivelata, con la costituzione e il corso della natura (1736), nel quale l'autore presenta il corso della natura e della storia umana come una grande analogia per comprendere il linguaggio ed il significato della Rivelazione cristiana. L'opera diverrà poi famosa per il grande influsso che eserciterà sul pensiero di John Henry Newman (1801-1890), che riserverà al lavoro del vescovo anglicano numerose citazioni in quasi tutti i suoi libri.
4. L’analogia fidei. Un significato diverso, almeno nella sua origine, da quello che interviene nella filosofia aristotelico-tomista, si rinviene nell’espressione analogia fidei o “analogia della fede”. Questa espressione è presente, originariamente, nella lettera ai Romani dell’apostolo Paolo («Chi ha il dono della profezia la eserciti secondo la misura della fede», Rm 12,6), ove il termine greco analoghía viene impiegato nel senso di “misura”, o “proporzione”. Nella tradizione cattolica questa espressione ha assunto carattere tecnico ad indicare l’adeguatezza e l’armoniosa proporzione tra le verità della fede che non possono entrare in conflitto fra loro. Il Catechismo della Chiesa Cattolica, la definisce oggi nel modo seguente: «Per “analogia della fede” intendiamo la coesione delle verità della fede tra loro e nella totalità del progetto della Rivelazione» (CCC 114). Essa guida nell’interpretazione dell’antico testamento alla luce del nuovo, nella comprensione organica e unitaria di tutto il Magistero, nell’elaborazione della teologia alla luce della tradizione. Essa è fondamentale per una corretta comprensione dello “sviluppo del dogma” che non va inteso come un mutamento del contenuto di verità, ma come un’approfondimento coerente della comprensione della medesima verità rivelata (fonti classiche della comprensione di tale sviluppo in Vincenzo di Lerins, Commonitorium, 53: PL 50, 668; per la teologia, esposizione ragionata in Newman, Lo sviluppo della dottrina cristiana, 1845).
La teologia dei riformatori, specie con Karl Barth (1886-1868) ha fatto uso dell’espressione analogia fidei per indicare nella divina rivelazione l’unica fonte di conoscenza di Dio, contrapponendola alla analogia entis intesa come fondamento della via percorsa dalla ragione naturale per una conoscenza non rivelata di Dio che, nella visione luterana, è negata in radice ( LUTERO). Rifiutando la possibilità di una conoscenza analogica di Dio partendo dal creato, tali autori cercano di fondare la possibilità e l'intelligibilità della Rivelazione unicamente sul dono della grazia: «I nostri concetti e i nostri termini umani — affema Barth —, in quanto nostri, sono totalmente incapaci di esprimere Dio e il suo mistero; la loro possibilità di essere veri viene loro soltanto dalla rivelazione». Per Barth, di Dio si può dire soltanto ciò che Dio stesso dice di Sé, cioè solo la sua Parola, il Cristo. Va tuttavia osservato che tale prospettiva non risolve in modo convincente il problema di fondare l'intelligibilità e la comprensione della parola rivelata, in quanto, sebbene aiutati dalla grazia, la nostra comprensione di Dio continuerà ad esprimersi con le parole del nostro linguaggio, perché le uniche disponibili. In definitiva, non si potrà mai prescindere dalla necessità dell'analogia dell'essere: «se il Cristo può utilizzare tutte le risorse dell'universo creato per farci conoscere Dio e i costumi divini, è perché la parola creatrice ha preceduto ed è il fondamento della parola rivelatrice, ed è perché l'una e l'altra hanno come principio la stessa Parola interiore di Dio. La rivelazione del Cristo suppone la verità dell'analogia» (R. Latourelle, Teologia della Rivelazione, Assisi 1986, p. 425).
Fonte
Alberto Strumìa, Analogia, Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede
http://www.disf.org/voci/29.asp
mercredi 8 juillet 2009
mardi 23 juin 2009
A identidade batista
Nestes 400 anos de aniversário da origem do movimento batista na Inglaterra, muita gente nos pergunta o que é um batista, qual é sua origem e o que caracteriza seu pensamento teológico. Então, resolvi falar sobre nossa identidade, origem e teologia. (JP).
A identidade batista
1. Tem por base a reivindicação de uma história de séculos, de cristãos que serviram a Cristo com autonomia diante dos poderes dos reinos do mundo romano, oriental e europeu e das expressões religiosas cristianizadas que se atrelaram aos Estados e governos de cada época.
2. Tem por base a compreensão de que durante toda a sua história, homens e mulheres de fé deram suas vidas para viver segundo aquilo que a Bíblia apresenta como regra de fé e conduta.
3. Tem por base a compreensão de que, historicamente, os batistas se organizaram pela primeira vez, como igreja pública e instituída, em 1609. E que esses primeiros batistas denominados, entre os quais John Smyth e Thomas Helwys na Inglaterra e Holanda, sem serem os fundadores de nossa fé, nos mostraram o padrão batista: a autonomia em relação aos poderes do mundo e a Bíblia como regra de fé e conduta, ainda que isso signifique prisão ou morte por Cristo e pela doutrina dos apóstolos.
4. Tem por base a liberdade de pensamento e de expressão religiosa que os batistas ingleses e norte-americanos defenderam para as suas sociedades, ajudando a construir nações que foram impactadas pela fé cristã.
5. Tem por base a unidade eclesiológica e a unidade ao redor da doutrina dos apóstolos, sem impor uniformidade litúrgica ou cúltica. Tem por base a diversidade que nasce da pluralidade cultural.
6. Tem por base a origem missionária da fé batista no Brasil, através do trabalho de missionários norte-americanos que deram suas vidas pela evangelização desse país.
7. Tem por base o desafio que temos para, a partir de nossa história, reconhecendo nossa tradição, apresentar uma igreja batista que sem deixar de ser conservadora e histórica, apresentar o Cristo vivo e salvador aos brasileiros do século 21.
O que é ser batista?
1. É ter a Bíblia como única regra de fé e conduta. E entender que foi escrita por homens movidos pelo Espírito Santo, e que sua autoridade está acima da tradição, dos concílios e do magistério de qualquer igreja.
2. É professar Jesus Cristo como Salvador pessoal e dar testemunho dessa fé através do batismo bíblico em nome da Trindade de Deus.
3. É fazer parte de uma igreja local, autônoma em relação aos poderes desse mundo, religiosos e do Estado. É entender que a igreja local é assembléia que se reúne para adoração, proclamação, edificação, comunhão e serviço.
Os batistas ingleses
As comunidades cristãs traduzem formas específicas e históricas da igreja cristã no mundo. Por isso, no cristianismo, as denominações podem ser vistas como comunidades que integram conjuntos de tradições. E os batistas se apresentam no mundo através de suas diferentes igrejas locais. Mas, apesar das diferenças culturais e de tradições, há, como vimos acima, elementos nucleadores que formam a identidade batista.
As bases do pensamento teológico batista na modernidade devem ser compreendidas à luz do Iluminismo e das revoluções político-sociais do século XVII. A maneira de pensar formadora do movimento batista moderno teve por base um sistema de pensamento que priorizou a liberdade de expressão e o exercício dessa liberdade ao nível prático, tanto da pessoa como da sociedade.
Esse pensamento moderno bifurcou-se em diferentes caminhos, mas em especial no liberalismo político e econômico, e no liberalismo teológico, submetido à crítica da razão e da experiência.
Essa cosmovisão deu centralidade à razão e considerou-a capaz de compreender e desvendar todos os mistérios do cosmo. Portanto, os batistas ingleses organizaram-se como comunidade cristã diferenciada e plantada nos princípios democráticos e liberais do século XVII. O resultado dessa reflexão se traduziu num slogan: igrejas livres em sociedades livres.
A busca pela liberdade religiosa
A partir de 1603, a Inglaterra viveu momentos de transformação social e política, que levaram à troca de dinastias (Tudors por Stuarts), por mudanças de pensamento geradas pelo Renascimento, pela leitura das Escrituras Sagradas, pelo crescimento comercial e pela ação puritana contra a igreja oficial. Tais transformações levaram ao repúdio da submissão do clero à autoridade monárquica e à oposição ao totalitarismo oligárquico da igreja oficial.
Assim a igreja anglicana se dividiu. Em 1604, o rei James I começou a perseguir as igrejas protestantes e exigiu a uniformidade religiosa em nome da ordem social. E afirmou que ele era a autoridade máxima na igreja e no Estado.
Em 1625 deu-se a sucessão imperial e com Charles I uma nova esperança surgiu para os puritanos e dissidentes. Mas, em 1633, William Laud assumiu como arcebispo da Cantuária e se tornou a maior autoridade eclesiástica inglesa. Laud foi nomeado primeiro-ministro e apoiou a supremacia do rei sobre a igreja. Teve início, então, perseguições contra os puritanos. Em 1640, cresceram as tensões entre o Parlamento e o rei
A discórdia entre o rei e o Parlamento resultou numa revolução armada (1642). O rei teve o apoio do Exército Modelo, que se colocou contra o partido puritano. Mas, o partido puritano, com o apoio das comunidades separatistas, conquistou a vitória. Pouco tempo depois, porém, as igrejas separatistas decepcionaram-se, já que os princípios de liberdade religiosa não foram adotados. Em 1648, como a formação do protetorado de Oliver Cromwell, as igrejas batistas deram início às ações e manifestações a favor da liberdade religiosa.
Os princípios da igreja batista inglesa
A luta pela liberdade como bem humano teve início com as perseguições e injustiças cometidas pelo rei inglês contra as igrejas dissidentes. Isso porque o poder do Estado centralizado no rei e apoiado pela igreja oficial procuravam uniformizar a religião, com o objetivo de fortalecer a supremacia da autoridade.
As chamadas igrejas dissidentes opunham-se a esse intento, buscando o contrário: a liberdade religiosa. Por motivos político-econômicos -- detenção e monopolização dos meios de produção e organismos sociais -- tanto o rei quanto a igreja oficial não desejavam a alteração da ordem vigente.
Por essa época (1609-1612), John Smyth, primeiro pastor batista na Inglaterra, levantou a bandeira da liberdade de consciência absoluta. Era o início da trajetória batista de ação política engajada na busca pela liberdade religiosa. Assim, o princípio da liberdade religiosa foi parte integrante da vida e fé dos primeiros batistas ingleses.
O pensamento batista moderno
John Smyth, Thomas Helwys e Guilherme Dell lançaram na Inglaterra as bases históricas da reflexão teológica batista. Mas as dissidências no correr da Idade Média contra a igreja católica centralizada em Roma deixaram marcas que por fazer parte da tradição neotestamentária, como as bandeiras da autonomia da igreja diante dos poderes e da Bíblia como única base de regra de fé e conduta, foram reivindicadas como batistas. Depois da Reforma, compreensões teológicas expostas por Lutero, Calvino e Zwinglio, mas também pelos movimentos anabatistas, puritanos e metodistas foram tomados pelos batistas como corretos.
Tendo por base os princípios políticos da liberdade de pensamento e de expressão, que vão se refletir numa eclesiologia predominantemente congregacional, de autonomia da igreja local, e os princípios teológicos da salvação pela graça redentora de Cristo através da obediência na fé, e da Bíblia como normativa em questões de regra e fé, o pensamento batista se consolidou, apesar das diferenças culturais e históricas.
Assim, os batistas ingleses herdaram ênfases teológicas, que depois foram levadas às colônias norte-americanas. Entre elas podemos citar:
1. Dos anabatistas, a Palavra de Deus como fonte experimentada pela iluminação do Espírito Santo; a regeneração necessária para a vida nova; a igreja como associação voluntária de santos; e a completa separação entre a igreja e o estado.
2. De Lutero, a teologia cristológica; a predestinação dos eleitos; a igreja como comunidade dos santos em Cristo.
3. De Calvino, a Bíblia como suprema autoridade e a doutrina da predestinação dupla e incondicional -- embora os batistas gerais não a aceitem.
4. De Zwinglio, a interpretação normativa da Bíblia; o pecado como doença moral perdoável a qualquer tempo; e a salvação pela razão.
Origem histórica dos batistas ingleses
Na Inglaterra, a origem histórica dos batistas foram as tradições anabatistas/ menonitas holandesas e a ação opositora dos congregacionais à igreja anglicana oficial. Com a perseguição na Inglaterra, em 1609, um grupo separatista fugiu para a Holanda. Mais tarde, esses batistas voltaram para a Inglaterra acompanhados pelo pastor Thomas Helwys e assumiram uma abordagem teológica calvinista.
Se Thomas Helwys foi o primeiro teólogo e escritor batista inglês, que publicou A Short Declaration of the Mystery of Iniquity, Guilherme Dell foi o primeiro intelectual batista.
Dell, conhecido por suas fortes convicções teológicas a respeito da livre expressão do ser humano e defensor dos princípios batistas, apesar de não ter ligação com nenhuma congregação, em 1646, destacou-se por sua luta a favor da liberdade religiosa na Inglaterra.
Escreveu o livro intitulado Uniformidade Examinada onde defendia a tese de que a unidade deve existir sem uniformidade, uma vez que a última é má e intolerável, já que exclui a liberdade concedida por Deus. Essa era uma argumentação favorável a liberdade religiosa.
Outra questão estava no fato de que a uniformidade contraria a mensagem de Cristo e força a igreja, que é o corpo de Cristo, a portar-se de maneira externa aos seus princípios. Ou seja, adapta-se a um poder humano e, sem o aval de Deus, acaba por configurar-se num movimento anticristão, considerado por Dell, pior que o paganismo.
A identidade batista
1. Tem por base a reivindicação de uma história de séculos, de cristãos que serviram a Cristo com autonomia diante dos poderes dos reinos do mundo romano, oriental e europeu e das expressões religiosas cristianizadas que se atrelaram aos Estados e governos de cada época.
2. Tem por base a compreensão de que durante toda a sua história, homens e mulheres de fé deram suas vidas para viver segundo aquilo que a Bíblia apresenta como regra de fé e conduta.
3. Tem por base a compreensão de que, historicamente, os batistas se organizaram pela primeira vez, como igreja pública e instituída, em 1609. E que esses primeiros batistas denominados, entre os quais John Smyth e Thomas Helwys na Inglaterra e Holanda, sem serem os fundadores de nossa fé, nos mostraram o padrão batista: a autonomia em relação aos poderes do mundo e a Bíblia como regra de fé e conduta, ainda que isso signifique prisão ou morte por Cristo e pela doutrina dos apóstolos.
4. Tem por base a liberdade de pensamento e de expressão religiosa que os batistas ingleses e norte-americanos defenderam para as suas sociedades, ajudando a construir nações que foram impactadas pela fé cristã.
5. Tem por base a unidade eclesiológica e a unidade ao redor da doutrina dos apóstolos, sem impor uniformidade litúrgica ou cúltica. Tem por base a diversidade que nasce da pluralidade cultural.
6. Tem por base a origem missionária da fé batista no Brasil, através do trabalho de missionários norte-americanos que deram suas vidas pela evangelização desse país.
7. Tem por base o desafio que temos para, a partir de nossa história, reconhecendo nossa tradição, apresentar uma igreja batista que sem deixar de ser conservadora e histórica, apresentar o Cristo vivo e salvador aos brasileiros do século 21.
O que é ser batista?
1. É ter a Bíblia como única regra de fé e conduta. E entender que foi escrita por homens movidos pelo Espírito Santo, e que sua autoridade está acima da tradição, dos concílios e do magistério de qualquer igreja.
2. É professar Jesus Cristo como Salvador pessoal e dar testemunho dessa fé através do batismo bíblico em nome da Trindade de Deus.
3. É fazer parte de uma igreja local, autônoma em relação aos poderes desse mundo, religiosos e do Estado. É entender que a igreja local é assembléia que se reúne para adoração, proclamação, edificação, comunhão e serviço.
Os batistas ingleses
As comunidades cristãs traduzem formas específicas e históricas da igreja cristã no mundo. Por isso, no cristianismo, as denominações podem ser vistas como comunidades que integram conjuntos de tradições. E os batistas se apresentam no mundo através de suas diferentes igrejas locais. Mas, apesar das diferenças culturais e de tradições, há, como vimos acima, elementos nucleadores que formam a identidade batista.
As bases do pensamento teológico batista na modernidade devem ser compreendidas à luz do Iluminismo e das revoluções político-sociais do século XVII. A maneira de pensar formadora do movimento batista moderno teve por base um sistema de pensamento que priorizou a liberdade de expressão e o exercício dessa liberdade ao nível prático, tanto da pessoa como da sociedade.
Esse pensamento moderno bifurcou-se em diferentes caminhos, mas em especial no liberalismo político e econômico, e no liberalismo teológico, submetido à crítica da razão e da experiência.
Essa cosmovisão deu centralidade à razão e considerou-a capaz de compreender e desvendar todos os mistérios do cosmo. Portanto, os batistas ingleses organizaram-se como comunidade cristã diferenciada e plantada nos princípios democráticos e liberais do século XVII. O resultado dessa reflexão se traduziu num slogan: igrejas livres em sociedades livres.
A busca pela liberdade religiosa
A partir de 1603, a Inglaterra viveu momentos de transformação social e política, que levaram à troca de dinastias (Tudors por Stuarts), por mudanças de pensamento geradas pelo Renascimento, pela leitura das Escrituras Sagradas, pelo crescimento comercial e pela ação puritana contra a igreja oficial. Tais transformações levaram ao repúdio da submissão do clero à autoridade monárquica e à oposição ao totalitarismo oligárquico da igreja oficial.
Assim a igreja anglicana se dividiu. Em 1604, o rei James I começou a perseguir as igrejas protestantes e exigiu a uniformidade religiosa em nome da ordem social. E afirmou que ele era a autoridade máxima na igreja e no Estado.
Em 1625 deu-se a sucessão imperial e com Charles I uma nova esperança surgiu para os puritanos e dissidentes. Mas, em 1633, William Laud assumiu como arcebispo da Cantuária e se tornou a maior autoridade eclesiástica inglesa. Laud foi nomeado primeiro-ministro e apoiou a supremacia do rei sobre a igreja. Teve início, então, perseguições contra os puritanos. Em 1640, cresceram as tensões entre o Parlamento e o rei
A discórdia entre o rei e o Parlamento resultou numa revolução armada (1642). O rei teve o apoio do Exército Modelo, que se colocou contra o partido puritano. Mas, o partido puritano, com o apoio das comunidades separatistas, conquistou a vitória. Pouco tempo depois, porém, as igrejas separatistas decepcionaram-se, já que os princípios de liberdade religiosa não foram adotados. Em 1648, como a formação do protetorado de Oliver Cromwell, as igrejas batistas deram início às ações e manifestações a favor da liberdade religiosa.
Os princípios da igreja batista inglesa
A luta pela liberdade como bem humano teve início com as perseguições e injustiças cometidas pelo rei inglês contra as igrejas dissidentes. Isso porque o poder do Estado centralizado no rei e apoiado pela igreja oficial procuravam uniformizar a religião, com o objetivo de fortalecer a supremacia da autoridade.
As chamadas igrejas dissidentes opunham-se a esse intento, buscando o contrário: a liberdade religiosa. Por motivos político-econômicos -- detenção e monopolização dos meios de produção e organismos sociais -- tanto o rei quanto a igreja oficial não desejavam a alteração da ordem vigente.
Por essa época (1609-1612), John Smyth, primeiro pastor batista na Inglaterra, levantou a bandeira da liberdade de consciência absoluta. Era o início da trajetória batista de ação política engajada na busca pela liberdade religiosa. Assim, o princípio da liberdade religiosa foi parte integrante da vida e fé dos primeiros batistas ingleses.
O pensamento batista moderno
John Smyth, Thomas Helwys e Guilherme Dell lançaram na Inglaterra as bases históricas da reflexão teológica batista. Mas as dissidências no correr da Idade Média contra a igreja católica centralizada em Roma deixaram marcas que por fazer parte da tradição neotestamentária, como as bandeiras da autonomia da igreja diante dos poderes e da Bíblia como única base de regra de fé e conduta, foram reivindicadas como batistas. Depois da Reforma, compreensões teológicas expostas por Lutero, Calvino e Zwinglio, mas também pelos movimentos anabatistas, puritanos e metodistas foram tomados pelos batistas como corretos.
Tendo por base os princípios políticos da liberdade de pensamento e de expressão, que vão se refletir numa eclesiologia predominantemente congregacional, de autonomia da igreja local, e os princípios teológicos da salvação pela graça redentora de Cristo através da obediência na fé, e da Bíblia como normativa em questões de regra e fé, o pensamento batista se consolidou, apesar das diferenças culturais e históricas.
Assim, os batistas ingleses herdaram ênfases teológicas, que depois foram levadas às colônias norte-americanas. Entre elas podemos citar:
1. Dos anabatistas, a Palavra de Deus como fonte experimentada pela iluminação do Espírito Santo; a regeneração necessária para a vida nova; a igreja como associação voluntária de santos; e a completa separação entre a igreja e o estado.
2. De Lutero, a teologia cristológica; a predestinação dos eleitos; a igreja como comunidade dos santos em Cristo.
3. De Calvino, a Bíblia como suprema autoridade e a doutrina da predestinação dupla e incondicional -- embora os batistas gerais não a aceitem.
4. De Zwinglio, a interpretação normativa da Bíblia; o pecado como doença moral perdoável a qualquer tempo; e a salvação pela razão.
Origem histórica dos batistas ingleses
Na Inglaterra, a origem histórica dos batistas foram as tradições anabatistas/ menonitas holandesas e a ação opositora dos congregacionais à igreja anglicana oficial. Com a perseguição na Inglaterra, em 1609, um grupo separatista fugiu para a Holanda. Mais tarde, esses batistas voltaram para a Inglaterra acompanhados pelo pastor Thomas Helwys e assumiram uma abordagem teológica calvinista.
Se Thomas Helwys foi o primeiro teólogo e escritor batista inglês, que publicou A Short Declaration of the Mystery of Iniquity, Guilherme Dell foi o primeiro intelectual batista.
Dell, conhecido por suas fortes convicções teológicas a respeito da livre expressão do ser humano e defensor dos princípios batistas, apesar de não ter ligação com nenhuma congregação, em 1646, destacou-se por sua luta a favor da liberdade religiosa na Inglaterra.
Escreveu o livro intitulado Uniformidade Examinada onde defendia a tese de que a unidade deve existir sem uniformidade, uma vez que a última é má e intolerável, já que exclui a liberdade concedida por Deus. Essa era uma argumentação favorável a liberdade religiosa.
Outra questão estava no fato de que a uniformidade contraria a mensagem de Cristo e força a igreja, que é o corpo de Cristo, a portar-se de maneira externa aos seus princípios. Ou seja, adapta-se a um poder humano e, sem o aval de Deus, acaba por configurar-se num movimento anticristão, considerado por Dell, pior que o paganismo.
mardi 9 juin 2009
A revolução evangélica
Em 1997, a revista VEJA fez uma reportagem sobre os evangélicos. De lá para cá correu muita água debaixo dessa ponte. Em junho último, Evangélicos pela Justiça divulgou artigo sobre o fenômeno evangélico. Logo após o artigo, na íntegra, está a reportagem de VEJA. Leia e diga o que você acha.(Jorge Pinheiro).
Desde a década de 80 cientistas políticos, antropólogos e sociólogos, sem contar padres e freiras, tentam entender um mistério digno das melhores elucubrações de teólogos católicos, de Santo Agostinho a Hans Kung: a conversão pacífica de 8 milhões de brasileiros às mais de 100 denominações evangélicas que existem no país. É um crescimento da ordem de 100%. No mesmo período, a população brasileira aumentou 31%, o que significa que os evangélicos se multiplicaram a uma taxa três vezes maior que a do país. Eles formam hoje um rebanho de 16 milhões de fiéis. Um rebanho ordeiro, trabalhador, que vem galgando a pirâmide social com velocidade assombrosa. O maior país católico agora é também o terceiro maior do mundo em número de protestantes. É um fenômeno que se assemelha aos épicos bíblico-hollywoodianos: milhões de figurantes, novos apóstolos, canastrões, parábolas de sofrimentos abissais antes da conversão; glórias e prazeres indizíveis depois. Esse processo de conquista de almas já foi interpretado como puro fanatismo, exploração de gente humilde por espertalhões, desqualificado por boçal e vítima dos preconceitos mais pitorescos. Na versão mais sofisticada, a crítica atribuiu aos novos fiéis a pecha de fundamentalistas. Nada mais errado. Tantas almas foram ganhas para o "Deus vivo" porque de alguma maneira a religião acabou sendo útil aos convertidos.
O que aconteceu depois
No intervalo de apenas três anos entre a publicação da reportagem de VEJA e a realização de um novo censo demográfico no Brasil, o número de protestantes registrou um impressionante aumento de 10 milhões de pessoas - de 16 milhões de fiéis para 26 milhões em 2000, ou mais de 15% dos brasileiros. O percentual era cinco vezes maior que em 1940 e o dobro do de 1980. Em Estados como Rio de Janeiro e Goiás, o índice superava 20% dos habitantes. No Espírito Santo e em Rondônia, os evangélicos passaram de um quarto da população. Esse ritmo indicava que metade dos brasileiros poderiam estar convertidos em cinco décadas - um tempo mínimo quando se fala em avanço religioso.
As conseqüências desse crescimento foram muitas. Apenas como sinais das alterações a que esse fenômeno pode levar no perfil das famílias brasileiras, vale citar que os evangélicos, mesmo entre os menos escolarizados, têm menor número de filhos que seus vizinhos de outras religiões. A maioria das mulheres evangélicas casadas usam contraceptivos. A quase totalidade dos adeptos de igrejas evangélicas acreditam que a moral sexual do homem e da mulher deve ser igual, e muitos deles preferem casar-se
com algum irmão de fé. Além disso, ao contrário do que acontece com os católicos brasileiros, cuja maior parte nasce dentro da religião mas na maioria dos casos não a segue completamente, os evangélicos levam a prática da fé a sério: de acordo com dados de 2002, 80% dos evangélicos diziam participar das cerimônias e das obras sociais com regularidade, quatro vezes mais que no rebanho católico. Ao proliferarem em todas as camadas sociais, os evangélicos produziram mudanças facilmente detectáveis. A mais visível delas aconteceu em público. Os maiores eventos religiosos do país passaram a ser realizados por evangélicos. Um presbiteriano, Anthony Garotinho, foi o terceiro candidato mais votado na eleição presidencial de 2002. Sua mulher, Rosinha Matheus, foi eleita no primeiro turno para o governo do Rio. Nos campos de futebol, a imagem de jogadores mostrando camisetas com mensagens cristãs é a parte espetaculosa de uma mudança profunda nos treinos e nas concentrações. Muitos já não participam de brincadeiras machistas envolvendo colegas, não se acabam em noitadas na véspera dos jogos e até evitam xingar os juízes.
A novidade observada a partir do ano 2000 foi que o modelo de conversão dos evangélicos não se aplicava mais somente aos pobres, mas também cada vez mais a quem tem ou persegue a riqueza. Várias igrejas evangélicas formaram departamentos para atrair gente rica ou famosa. A quantidade de colunáveis convertidos mostra que a estratégia é um sucesso. A ex-modelo Monique Evans, que foi capa de várias revistas masculinas, integrava o quadro da igreja chique Sara Nossa Terra. A igreja Vida Nova, de São Paulo, passou a ser freqüentada por Íris Abravanel, mulher do homem do SBT, Silvio Santos, e por suas quatro filhas. Na área da mídia eletrônica, já havia um verdadeiro império evangélico país afora -- mais de 300 emissoras de rádio, centenas de sites e pastores dando plantão na internet e uma grande máquina televisiva. Não por acaso, a Universal, dona de uma das três maiores redes de TV do Brasil, a Record, é a igreja que mais recolhe doações acima dos 10% do dízimo convencional.
Na política, os evangélicos são um trator. A bancada evangélica da Câmara Federal, cada vez maior, é unida e atua muito além das barreiras partidárias nas questões relacionadas a costumes ou a interesses da fraternidade crente. Chegou inclusive a ter 23 congressistas envolvidos na origem do escândalo da máfia dos sanguessugas, que recebia propina para licitar a compra de ambulâncias superfaturadas. Há também grande investimento em educação. A média de leitura dos evangélicos brasileiros girava em torno de seis livros por ano em 2002 - o dobro da média nacional. As denominações evangélicas administram mais de 1.000 escolas no Brasil, com uma clientela que ultrapassa os 750.000 alunos.
Paradoxalmente, o que mais mudou no Brasil com o crescimento da legião evangélica foi a Igreja Católica. De um lado, surgiu a Renovação Carismática, para revigorar os aspectos místicos e milagrosos da fé. De outro, os padres-cantores saíram atrás de fiéis e compradores de CDs. Na mídia, a Igreja fincou uma bandeira em tempo recorde, criando a Rede Vida de rádio e TV, que cobre todo o território nacional. Os resultados, porém, estão longe do esperado. Uma pesquisa de 2004, feita pelo Centro de Estatística Religiosa e Investigações Sociais (Ceris), revelou que a Igreja Católica brasileira perdeu nada menos do que 15 milhões de almas em duas décadas — boa parte foi preencher os bancos das evangélicas.
Os católicos falam em crise de vocações. Em 2006, o número de pastores evangélicos por fiel era dezoito vezes maior que a proporção de padres por católico. Enquanto a Igreja Católica não conseguia ordenar mais do que 900 padres por ano, só um único instituto evangélico de São Paulo formava, no mesmo período, 200 pastores. São pastores de uma nova geração, mais centrados na auto-ajuda e menos no sobrenatural do que seus predecessores — nada da ira e dos exorcismos de Edir Macedo, da Igreja Universal do Reino de Deus, ou de R.R. Soares, o onipresente telepastor da Internacional da Graça de Deus.
Fonte
Revista VEJA http://veja.abril.com.br/020797/p_086.html
Abaixo, na íntegra, o artigo da VEJA.
"Onde tem Coca-Cola e Correios tem Assembléia de Deus": cultos em todo canto
Desde a década de 80 cientistas políticos, antropólogos e sociólogos, sem contar padres e freiras, tentam entender um mistério digno das melhores elucubrações de teólogos católicos, de Santo Agostinho a Hans Kung: a conversão pacífica de 8 milhões de brasileiros às mais de 100 denominações evangélicas que existem no país. É um crescimento da ordem de 100%. No mesmo período, a população brasileira aumentou 31%, o que significa que os evangélicos se multiplicaram a uma taxa três vezes maior que a do país. Eles formam hoje um rebanho de 16 milhões de fiéis. Um rebanho ordeiro, trabalhador, que vem galgando a pirâmide social com velocidade assombrosa. O maior país católico agora é também o terceiro maior do mundo em número de protestantes. É um fenômeno que se assemelha aos épicos bíblico-hollywoodianos: milhões de figurantes, novos apóstolos, canastrões, parábolas de sofrimentos abissais antes da conversão; glórias e prazeres indizíveis depois.
Esse processo de conquista de almas já foi interpretado como puro fanatismo, exploração de gente humilde por espertalhões, desqualificado por boçal e vítima dos preconceitos mais pitorescos. Na versão mais sofisticada, a crítica atribuiu aos novos fiéis a pecha de fundamentalistas. Nada mais errado. Tantas almas foram ganhas para o "Deus vivo" -- professado sempre aos gritos pelos evangélicos neopentecostais em cultos mais estridentes que uma apresentação de Carla Perez -- porque de alguma maneira a religião acabou sendo útil aos convertidos. Vencendo o preconceito e o desconhecimento, uma nova fornada de estudos acadêmicos sobre o tema é capaz de relacionar alguns desses benefícios:
As igrejas evangélicas realizam um monumental trabalho de alfabetização de adultos e estimulam o hábito da leitura. Embora recrutados entre a população mais pobre e portanto mais suscetível ao analfabetismo -- 54% do rebanho ganha até cinco salários mínimos --, os evangélicos são mais letrados. O analfabetismo entre eles atinge apenas 9,5%, contra 20% da população brasileira em geral.
A disciplina religiosa e a importância dada à educação como fator de ascensão social fazem com que os fiéis das igrejas evangélicas sejam mais exigentes com o desempenho escolar dos filhos. Mesmo quando pobres, 80% dos evangélicos não admitem a hipótese de seus filhos adolescentes entre 12 e 17 anos deixarem de estudar para trabalhar. É o quesito relativo ao comportamento da prole em que são mais exigentes. Na população em geral, o imperativo do estudo atinge apenas 60%.
Sem dogmas que impeçam o planejamento familiar, as novas igrejas distribuem anticoncepcionais a seu rebanho. Segundo o estudo "Novo Nascimento", produzido pelo Instituto de Estudos da Religião, entre as famílias evangélicas pobres, o número de filhos é, em média, 25% menor que entre a população brasileira.
Os evangélicos realizam trabalhos de recuperação de dependentes de drogas e álcool em 270 clínicas espalhadas pelo Brasil. Elas atendem 12.000 pessoas, com índices de eficiência semelhantes aos obtidos por instituições reputadas, como os Alcoólicos Anônimos: 60% de recuperação.
Uma sólida rede de solidariedade entre os fiéis garante que um ajude o outro na hora do desemprego ou da dificuldade financeira. Evangélico empresário prefere empregar irmãos de fé ou candidatos à conversão. Essa rede de empregos se amplia ainda mais porque a atividade religiosa, para os evangélicos, implica a criação de empresas. Editoras bíblicas, canais de televisão, escolas, templos e até bancos evangélicos são responsáveis pelo surgimento de 600.000 empregos, cinco vezes mais que os postos gerados diretamente pela indústria automobilística.
Leitura obrigatória -- Num país onde a educação é uma desgraça, embora seja fator decisivo no destino de qualquer pessoa, o costume protestante de promover a leitura cotidiana da Bíblia, e, mais do que isso, de obrigar o fiel a ler os textos sagrados antes de convertê-lo, transformou-se numa verdadeira revolução educativa. "Os protestantes têm de ser alfabetizados para cumprir seus deveres e fazer seus filhos cumprirem essa norma", lembra o reverendo Jaime Wright, da Igreja Presbiteriana Unida do Brasil. É uma diferença e tanto num país de tradição católica, pela qual só aos padres compete a leitura das Sagradas Escrituras. A professora de sociologia Cecília Mariz, da Uerj, acompanhou durante cinco anos comunidades evangélicas no Rio de Janeiro e no Recife. Mais tarde, numa tese de doutorado que fez na Universidade de Boston, com o título de "Convivendo com a pobreza -- Pentecostais e comunidades de base no Brasil", Cecília notou que a escola bíblica, dominical, é uma fonte de instrução vital. Além disso, perpetua o hábito da leitura. "A grande frustração dos programas oficiais de alfabetização tentados no Brasil é que, uma vez dominadas as primeiras letras, o aluno nunca mais punha os olhos num jornal ou numa revista", diz ela. "Com os evangélicos, não acontece isso: eles lêem sempre a Bíblia, de onde passam para jornais ou livros religiosos." Exatamente essa parcela de brasileiros muito pobres, entre os quais se inscrevem os 19 milhões de analfabetos, é alvo privilegiado da pregação pentecostal.
Pastor-presidente da 1ª Igreja Batista de Niterói há 33 anos, Nilson Fanini explica que a educação é uma exigência para o 1,8 milhão de batistas das 6.000 igrejas que mantém. Setenta escolas de 1º e .2º grau e 300.000 alunos mantidos pela Convenção Batista Brasileira mostram o esforço educacional desses protestantes. A Igreja Universal, do bispo Edir Macedo, gere o projeto Ler e Escrever, que visa alfabetizar por meio da Bíblia. Segundo o bispo Honorilton Gonçalves, 1,2 milhão de pessoas já passaram pelos bancos do Ler e Escrever.
E haja o que ler. As editoras evangélicas são um estouro empresarial que só tem concorrente entre as casas que produzem livros didáticos -- com a diferença de que elas não possuem a clientela garantida pelo governo. De suas gráficas saíram no ano passado 21 milhões de exemplares de livros, revistas, bíblias e jornais. A maior fatia é de revistas e jornais, com 15 milhões, seguida pelas bíblias, 3,5 milhões de cópias. Em 1995, a produção total foi de 9 milhões, o que resulta num crescimento de 130% em apenas um ano. Só no ano passado foram lançadas noventa novas revistas e jornais, 396 livros inéditos, 61 modelos de bíblia. Para quem acha que essas leituras servem apenas ao fanatismo, lembre-se que hoje nem os setores que empregam a mão-de-obra mais desqualificada, como a admitida na construção civil ou para os serviços domésticos, aceitam trabalhadores analfabetos.
Reformas -- O líder da Assembléia de Deus brasileira, a maior igreja evangélica do país, o cearense José Wellington Bezerra da Costa, bacharel em direito, é testemunha e co-autor desses êxitos. Pai de seis filhos -- três são pastores, uma é sua secretária, outra trabalha com crianças e um, médico, dá assistência ao pessoal da igreja --, Wellington dirige a maior das igrejas evangélicas. São 2,9 milhões de fiéis, conduzidos por 10.000 pastores. É tanta gente que a convenção geral que elege o presidente da Assembléia, a cada dois anos, reúne cerca de 5.000 pastores. A última delas, em janeiro, foi no Estádio do Mineirinho, em Belo Horizonte. São 130.000 casas de oração, incluindo as igrejas, desde uma pequena tapera alugada até templos que acolhem 10.000 pessoas, como uma antiga fábrica de tapetes comprada há seis meses num bairro operário de São Paulo. Na mesma região, já funciona outro templo com capacidade para 3.500 pessoas. No último domingo de cada mês há batismos -- entre 1.000 e 1.500 pessoas são batizadas de uma só vez.
Três dos quatro últimos presidentes receberam o pastor Wellington em audiência -- José Sarney, Fernando Collor de Mello e Fernando Henrique Cardoso. No encontro com FHC, em outubro passado, Wellington deu seu recado: "Eu disse que nós somos 100% contrários à união civil entre homossexuais, 100% contrários à liberação do aborto, 100% contrários às drogas e 100% contrários ao Movimento dos Sem-Terra, porque ele fere o direito de propriedade, e disse que a Assembléia de Deus ora e dá apoio às reformas".
A força da organização está nos passos de formiga de cada um de seus membros. A Assembléia de Deus é menos centralizada que a Igreja Católica, muito mais permeável, portanto, à pressão dos fiéis. Apesar dos 100% empenhados contra o MST pelo pastor Wellington, nos acampamentos de sem-terra e nos cultos ecumênicos realizados em favor da reforma agrária sempre está um pastor assembleiano, ladeado por um padre da teologia da libertação, exortando a "companheirada" a prosseguir na luta. Também se encontram evangélicos entre a liderança da PM de Minas Gerais que encerrou quinze dias de greve na semana passada, nos clubes de futebol e até no ministério, onde possuem um representante, Iris Rezende, da Justiça, evangélico de hábitos regulares.
Em todo lugar -- Donos de uma tecnologia de invasão de corações, eles sabem como crescer na periferia e nos ermos rurais. "Quando há um loteamento novo, não esperamos: chegamos na frente, compramos o terreno mais barato e assim que o pessoal chega já tem a igreja para freqüentar", explica o pastor Wellington, exibindo uma visão de religião como tão indispensável quanto água encanada e luz elétrica. Diferentemente da Igreja Católica, com templos cravados nos lugares centrais de cada cidade, os evangélicos se enfiam nos bairros em formação, em bocadas miseráveis, em favelas encarapitadas em morros. Essa logística de ocupação das grandes cidades produz o milagre da multiplicação dos templos, que dá a impressão de que eles estão em todo lugar. Estão mesmo. "Onde tem Coca-Cola, Correios e Bradesco, tem Assembléia de Deus", ironiza Wellington.
É o padre Agnaldo Luiz de Castro, pároco da Igreja Nossa Senhora das Graças de Éden, subúrbio do Rio de Janeiro, quem dá uma das chaves para entender a multiplicação evangélica. Ele sabe o que é isso: sua igreja está cercada por templos protestantes de nomes tão complicados quanto Assembléia de Deus no Trabalho de Cura Divina, Prodígio e Libertação, Assembléia de Deus de Missões, Igreja Pentecostal Shalom e Igreja Evangélica Congregacional, sem contar um templo metodista. "É fácil criar uma igreja cristã não católica porque ninguém vai lá cobrar legitimidade, enquanto na Igreja Católica o padre não pode casar, tem de terminar o 2º grau e fazer sete anos de seminário, estudando três anos de filosofia e quatro de teologia. Isso ainda nos amarra." O que para o padre é defeito, para os evangélicos é princípio religioso. Desde que Martinho Lutero afixou as suas 95 teses na porta da igreja do castelo de Wittemberg, em 1517, e com isso deu origem ao mais espetacular cisma religioso da época moderna, a Reforma Protestante, os crentes acreditam no sacerdócio universal e na autoridade exclusiva da Bíblia. Todos podem falar com Deus, diretamente, sem a intermediação de vigários, e ter acesso direto à palavra divina. Com isso, o indivíduo tem mais responsabilidade, mais consciência, não depende tanto de hierarquias acima dele. Fundamentos básicos da nova fé, esses princípios valem para todas as igrejas ditas evangélicas.
"A perua de Deus" -- Os princípios permanecem, mas mudaram os invólucros. Em busca de um rebanho jovem, as seitas se modernizaram. "Em vez do ascetismo, agora pregam o hedonismo. Em vez de opor-se ao mundo -- antes considerado ninho de pecados --, agora querem integrar-se radicalmente a ele. Adaptaram-se e geraram o maior vetor de acomodação social da atualidade", avalia Ricardo Mariano, sociólogo da USP. Hoje, podem-se encontrar igrejas como a Renascer em Cristo, do "apóstolo" Estevam Hernandes, ex-gerente de marketing da Itautec e da Xerox e cuja esposa, a bispa Sônia Hernandes, é conhecida como "a perua de Deus", tal o seu exibicionismo em qualquer culto. A fala do jovem fiel de classe média da Renascer em Cristo Flávio Lima, 25 anos, dono de uma empresa que organiza eventos esportivos, torna evidente como os ideais de consumo penetraram no mundo antes asceta do protestantismo. "Chegou uma hora em que eu não queria mais ir à missa. Não dava para comparar a missa-Fusca em que eu andava com os cultos-BMW que freqüento agora." Quase uma caricatura. A Renascer é ainda uma igreja pequena, e deve permanecer assim, pela seleção social que acaba fazendo dos fiéis, mauricinhos em boa medida.
É entre os pobres, porque se apresentam como capazes de operar o milagre da prosperidade, que as novas igrejas pentecostais mais crescem. Também é entre eles que mostram sua força como elemento da acomodação social de que falou o sociólogo Ricardo Mariano. Num estudo com jovens evangélicos da periferia do Rio de Janeiro, a antropóloga Regina Novaes, do Instituto de Estudos da Religião, descobriu, por exemplo, que as igrejas evangélicas se afirmaram como uma opção ao tráfico de drogas. "Vi muitos meninos que trabalhavam para os chefes locais converter-se. Foi a forma de escapar à criminalidade." Mas essa adesão de adolescentes só foi possível porque as novas igrejas também se renovaram. Música funk, rap, dança, biquíni e sunga, que deixariam um crente de antigamente roxo de vergonha, são permitidos pelos novos pastores.
A concorrência dos soldados renovados de Deus obrigou a antes ultratradicionalista Assembléia a mudar. O pastor Wellington diz que sua igreja ainda não tolera mulher vestida com calças compridas -- "Não se ache na mulher a roupa do homem", diz a Bíblia. Em compensação, ele não vê nada de mais em seus fiéis usarem métodos contraceptivos artificiais. "Seria hipocrisia ir contra isso, embora eu ache melhor o método natural", diz. Até 1989, os seguidores dessa igreja não podiam sequer olhar para a televisão. Hoje, a Assembléia tem duas geradoras de programação e 47 repetidoras.
"Dinheiro, saúde e felicidade", prega sem peias o bispo Edir Macedo, "são a prova da bênção divina." E o fiel testa o merecimento dessa bênção ao fazer "apostas" com Deus, na forma das "ofertas em dinheiro", Se Deus acreditar na sinceridade do ofertante, dizem os pastroes, concederá a graça desejada. Causa repugnância a adeptos de outras igrejas. Isso sem falar no dízimo. Pode ser repugnante esse mercado de Deus. Mas o fato de pregar que o paraíso é aqui e agora -- depende de acreditar, pagar e trabalhar -- tem conseguido movimentar uma legião de miseráveis, que não mais se acabrunham diante das vicissitudes da vida, à espera do paraíso de além-túmulo. Seiscentos mil católicos deixam a cada ano a guarda do Vaticano para ingressar nessa aventura.
O queridinho dos intelectuais
No seu rol de amizades estão personalidades díspares como o comediante Chico Anysio, o sociólogo Betinho e os ex-candidatos à Presidência da República Luís Inácio Lula da Silva e Leonel Brizola. Ele já travou longas conversas telefônicas com o petista e recebeu Brizola para comer um tambaqui amazônico em sua casa. Na semana passada, apareceu sorridente, ao lado de uma bela morena, numa foto de coluna social. Já vendeu 3,2 milhões de livros no Brasil. Seu nome é Caio Fábio D'Araújo Filho, pastor da Igreja Presbiteriana Bethânia, que, aos 42 anos, se firmou como símbolo de algo que os amigos chamam de "evangélicos éticos" e os inimigos, entre os quais se encontra um leque também amplo, como o bispo Edir Macedo e o governador do Rio de Janeiro, Marcello Alencar, classificam de "evangélicos chiques".
Lançado há duas semanas, o 93º livro de Caio Fábio, Confissões do Pastor, já vendeu quase toda a tiragem inicial, de 20 000 exemplares. No livro, autobiográfico, pontuado pelas confissões de Santo Agostinho -- uma heresia do ponto de vista dos evangélicos ortodoxos --, o pastor revela que foi um jovem rebelde, promíscuo e desorientado, consumidor voraz de bebida e drogas, sempre às voltas com mulheres e brigas. Amazonense, morando no Rio desde os 15 anos, ele lembra que, suicida, chegou a andar de motocicleta na contramão de uma avenida em Manaus e cogitou dar um tiro na cabeça. Como era de esperar numa obra desse tipo, lá pelas tantas o pastor explica que só não fez isso porque, antes, teve uma visão e se converteu.
Caio Fábio quebrou o preconceito contra os crentes e ganhou ares de pastor cult ao tomar a frente de movimentos sociais. É dele o projeto da Fábrica de Esperança, onde são atendidas mensalmente 15 000 pessoas, em cursos profissionalizantes e assistência médica, odontológica e psicossocial. Casado há 23 anos, pai de quatro filhos, o amazonense leva uma vida confortável num condomínio fechado em Itaipu, Niterói. Tem um Omega 95, celular e ganha por mês de 8 000 a 10 000 reais, entre o salário de pastor e os direitos autorais de seus livros.
A bênção e o dinheiro -- Ele não exerce atividades cotidianas de pároco há treze anos. Dedica-se aos projetos da organização cristã não-governamental Visão Nacional de Evangelização, Vinde, um complexo de comunicação, com uma editora, uma revista mensal que vende 60 000 exemplares, uma rádio AM no Rio e um canal de televisão, com transmissão para Rio, Goiânia, Anápolis e, em breve, Curitiba e Brasília. Ele também tem um programa semanal na TV Manchete. Já foi duas vezes presidente da Associação Evangélica Brasileira -- hoje é presidente de honra. Seu santo só não cruza com o do bispo Edir Macedo, da Igreja Universal do Reino de Deus. "Não acho que a bênção de Deus se alcança com dinheiro como ele prega", diz o pastor.
Com reportagem de Franco Iacomini, de Curitiba, Manoel Fernandes,
de Salvador, e Virginie Leite, do Rio de Janeiro.
Desde a década de 80 cientistas políticos, antropólogos e sociólogos, sem contar padres e freiras, tentam entender um mistério digno das melhores elucubrações de teólogos católicos, de Santo Agostinho a Hans Kung: a conversão pacífica de 8 milhões de brasileiros às mais de 100 denominações evangélicas que existem no país. É um crescimento da ordem de 100%. No mesmo período, a população brasileira aumentou 31%, o que significa que os evangélicos se multiplicaram a uma taxa três vezes maior que a do país. Eles formam hoje um rebanho de 16 milhões de fiéis. Um rebanho ordeiro, trabalhador, que vem galgando a pirâmide social com velocidade assombrosa. O maior país católico agora é também o terceiro maior do mundo em número de protestantes. É um fenômeno que se assemelha aos épicos bíblico-hollywoodianos: milhões de figurantes, novos apóstolos, canastrões, parábolas de sofrimentos abissais antes da conversão; glórias e prazeres indizíveis depois. Esse processo de conquista de almas já foi interpretado como puro fanatismo, exploração de gente humilde por espertalhões, desqualificado por boçal e vítima dos preconceitos mais pitorescos. Na versão mais sofisticada, a crítica atribuiu aos novos fiéis a pecha de fundamentalistas. Nada mais errado. Tantas almas foram ganhas para o "Deus vivo" porque de alguma maneira a religião acabou sendo útil aos convertidos.
O que aconteceu depois
No intervalo de apenas três anos entre a publicação da reportagem de VEJA e a realização de um novo censo demográfico no Brasil, o número de protestantes registrou um impressionante aumento de 10 milhões de pessoas - de 16 milhões de fiéis para 26 milhões em 2000, ou mais de 15% dos brasileiros. O percentual era cinco vezes maior que em 1940 e o dobro do de 1980. Em Estados como Rio de Janeiro e Goiás, o índice superava 20% dos habitantes. No Espírito Santo e em Rondônia, os evangélicos passaram de um quarto da população. Esse ritmo indicava que metade dos brasileiros poderiam estar convertidos em cinco décadas - um tempo mínimo quando se fala em avanço religioso.
As conseqüências desse crescimento foram muitas. Apenas como sinais das alterações a que esse fenômeno pode levar no perfil das famílias brasileiras, vale citar que os evangélicos, mesmo entre os menos escolarizados, têm menor número de filhos que seus vizinhos de outras religiões. A maioria das mulheres evangélicas casadas usam contraceptivos. A quase totalidade dos adeptos de igrejas evangélicas acreditam que a moral sexual do homem e da mulher deve ser igual, e muitos deles preferem casar-se
com algum irmão de fé. Além disso, ao contrário do que acontece com os católicos brasileiros, cuja maior parte nasce dentro da religião mas na maioria dos casos não a segue completamente, os evangélicos levam a prática da fé a sério: de acordo com dados de 2002, 80% dos evangélicos diziam participar das cerimônias e das obras sociais com regularidade, quatro vezes mais que no rebanho católico. Ao proliferarem em todas as camadas sociais, os evangélicos produziram mudanças facilmente detectáveis. A mais visível delas aconteceu em público. Os maiores eventos religiosos do país passaram a ser realizados por evangélicos. Um presbiteriano, Anthony Garotinho, foi o terceiro candidato mais votado na eleição presidencial de 2002. Sua mulher, Rosinha Matheus, foi eleita no primeiro turno para o governo do Rio. Nos campos de futebol, a imagem de jogadores mostrando camisetas com mensagens cristãs é a parte espetaculosa de uma mudança profunda nos treinos e nas concentrações. Muitos já não participam de brincadeiras machistas envolvendo colegas, não se acabam em noitadas na véspera dos jogos e até evitam xingar os juízes.
A novidade observada a partir do ano 2000 foi que o modelo de conversão dos evangélicos não se aplicava mais somente aos pobres, mas também cada vez mais a quem tem ou persegue a riqueza. Várias igrejas evangélicas formaram departamentos para atrair gente rica ou famosa. A quantidade de colunáveis convertidos mostra que a estratégia é um sucesso. A ex-modelo Monique Evans, que foi capa de várias revistas masculinas, integrava o quadro da igreja chique Sara Nossa Terra. A igreja Vida Nova, de São Paulo, passou a ser freqüentada por Íris Abravanel, mulher do homem do SBT, Silvio Santos, e por suas quatro filhas. Na área da mídia eletrônica, já havia um verdadeiro império evangélico país afora -- mais de 300 emissoras de rádio, centenas de sites e pastores dando plantão na internet e uma grande máquina televisiva. Não por acaso, a Universal, dona de uma das três maiores redes de TV do Brasil, a Record, é a igreja que mais recolhe doações acima dos 10% do dízimo convencional.
Na política, os evangélicos são um trator. A bancada evangélica da Câmara Federal, cada vez maior, é unida e atua muito além das barreiras partidárias nas questões relacionadas a costumes ou a interesses da fraternidade crente. Chegou inclusive a ter 23 congressistas envolvidos na origem do escândalo da máfia dos sanguessugas, que recebia propina para licitar a compra de ambulâncias superfaturadas. Há também grande investimento em educação. A média de leitura dos evangélicos brasileiros girava em torno de seis livros por ano em 2002 - o dobro da média nacional. As denominações evangélicas administram mais de 1.000 escolas no Brasil, com uma clientela que ultrapassa os 750.000 alunos.
Paradoxalmente, o que mais mudou no Brasil com o crescimento da legião evangélica foi a Igreja Católica. De um lado, surgiu a Renovação Carismática, para revigorar os aspectos místicos e milagrosos da fé. De outro, os padres-cantores saíram atrás de fiéis e compradores de CDs. Na mídia, a Igreja fincou uma bandeira em tempo recorde, criando a Rede Vida de rádio e TV, que cobre todo o território nacional. Os resultados, porém, estão longe do esperado. Uma pesquisa de 2004, feita pelo Centro de Estatística Religiosa e Investigações Sociais (Ceris), revelou que a Igreja Católica brasileira perdeu nada menos do que 15 milhões de almas em duas décadas — boa parte foi preencher os bancos das evangélicas.
Os católicos falam em crise de vocações. Em 2006, o número de pastores evangélicos por fiel era dezoito vezes maior que a proporção de padres por católico. Enquanto a Igreja Católica não conseguia ordenar mais do que 900 padres por ano, só um único instituto evangélico de São Paulo formava, no mesmo período, 200 pastores. São pastores de uma nova geração, mais centrados na auto-ajuda e menos no sobrenatural do que seus predecessores — nada da ira e dos exorcismos de Edir Macedo, da Igreja Universal do Reino de Deus, ou de R.R. Soares, o onipresente telepastor da Internacional da Graça de Deus.
Fonte
Revista VEJA http://veja.abril.com.br/020797/p_086.html
Abaixo, na íntegra, o artigo da VEJA.
"Onde tem Coca-Cola e Correios tem Assembléia de Deus": cultos em todo canto
Desde a década de 80 cientistas políticos, antropólogos e sociólogos, sem contar padres e freiras, tentam entender um mistério digno das melhores elucubrações de teólogos católicos, de Santo Agostinho a Hans Kung: a conversão pacífica de 8 milhões de brasileiros às mais de 100 denominações evangélicas que existem no país. É um crescimento da ordem de 100%. No mesmo período, a população brasileira aumentou 31%, o que significa que os evangélicos se multiplicaram a uma taxa três vezes maior que a do país. Eles formam hoje um rebanho de 16 milhões de fiéis. Um rebanho ordeiro, trabalhador, que vem galgando a pirâmide social com velocidade assombrosa. O maior país católico agora é também o terceiro maior do mundo em número de protestantes. É um fenômeno que se assemelha aos épicos bíblico-hollywoodianos: milhões de figurantes, novos apóstolos, canastrões, parábolas de sofrimentos abissais antes da conversão; glórias e prazeres indizíveis depois.
Esse processo de conquista de almas já foi interpretado como puro fanatismo, exploração de gente humilde por espertalhões, desqualificado por boçal e vítima dos preconceitos mais pitorescos. Na versão mais sofisticada, a crítica atribuiu aos novos fiéis a pecha de fundamentalistas. Nada mais errado. Tantas almas foram ganhas para o "Deus vivo" -- professado sempre aos gritos pelos evangélicos neopentecostais em cultos mais estridentes que uma apresentação de Carla Perez -- porque de alguma maneira a religião acabou sendo útil aos convertidos. Vencendo o preconceito e o desconhecimento, uma nova fornada de estudos acadêmicos sobre o tema é capaz de relacionar alguns desses benefícios:
As igrejas evangélicas realizam um monumental trabalho de alfabetização de adultos e estimulam o hábito da leitura. Embora recrutados entre a população mais pobre e portanto mais suscetível ao analfabetismo -- 54% do rebanho ganha até cinco salários mínimos --, os evangélicos são mais letrados. O analfabetismo entre eles atinge apenas 9,5%, contra 20% da população brasileira em geral.
A disciplina religiosa e a importância dada à educação como fator de ascensão social fazem com que os fiéis das igrejas evangélicas sejam mais exigentes com o desempenho escolar dos filhos. Mesmo quando pobres, 80% dos evangélicos não admitem a hipótese de seus filhos adolescentes entre 12 e 17 anos deixarem de estudar para trabalhar. É o quesito relativo ao comportamento da prole em que são mais exigentes. Na população em geral, o imperativo do estudo atinge apenas 60%.
Sem dogmas que impeçam o planejamento familiar, as novas igrejas distribuem anticoncepcionais a seu rebanho. Segundo o estudo "Novo Nascimento", produzido pelo Instituto de Estudos da Religião, entre as famílias evangélicas pobres, o número de filhos é, em média, 25% menor que entre a população brasileira.
Os evangélicos realizam trabalhos de recuperação de dependentes de drogas e álcool em 270 clínicas espalhadas pelo Brasil. Elas atendem 12.000 pessoas, com índices de eficiência semelhantes aos obtidos por instituições reputadas, como os Alcoólicos Anônimos: 60% de recuperação.
Uma sólida rede de solidariedade entre os fiéis garante que um ajude o outro na hora do desemprego ou da dificuldade financeira. Evangélico empresário prefere empregar irmãos de fé ou candidatos à conversão. Essa rede de empregos se amplia ainda mais porque a atividade religiosa, para os evangélicos, implica a criação de empresas. Editoras bíblicas, canais de televisão, escolas, templos e até bancos evangélicos são responsáveis pelo surgimento de 600.000 empregos, cinco vezes mais que os postos gerados diretamente pela indústria automobilística.
Leitura obrigatória -- Num país onde a educação é uma desgraça, embora seja fator decisivo no destino de qualquer pessoa, o costume protestante de promover a leitura cotidiana da Bíblia, e, mais do que isso, de obrigar o fiel a ler os textos sagrados antes de convertê-lo, transformou-se numa verdadeira revolução educativa. "Os protestantes têm de ser alfabetizados para cumprir seus deveres e fazer seus filhos cumprirem essa norma", lembra o reverendo Jaime Wright, da Igreja Presbiteriana Unida do Brasil. É uma diferença e tanto num país de tradição católica, pela qual só aos padres compete a leitura das Sagradas Escrituras. A professora de sociologia Cecília Mariz, da Uerj, acompanhou durante cinco anos comunidades evangélicas no Rio de Janeiro e no Recife. Mais tarde, numa tese de doutorado que fez na Universidade de Boston, com o título de "Convivendo com a pobreza -- Pentecostais e comunidades de base no Brasil", Cecília notou que a escola bíblica, dominical, é uma fonte de instrução vital. Além disso, perpetua o hábito da leitura. "A grande frustração dos programas oficiais de alfabetização tentados no Brasil é que, uma vez dominadas as primeiras letras, o aluno nunca mais punha os olhos num jornal ou numa revista", diz ela. "Com os evangélicos, não acontece isso: eles lêem sempre a Bíblia, de onde passam para jornais ou livros religiosos." Exatamente essa parcela de brasileiros muito pobres, entre os quais se inscrevem os 19 milhões de analfabetos, é alvo privilegiado da pregação pentecostal.
Pastor-presidente da 1ª Igreja Batista de Niterói há 33 anos, Nilson Fanini explica que a educação é uma exigência para o 1,8 milhão de batistas das 6.000 igrejas que mantém. Setenta escolas de 1º e .2º grau e 300.000 alunos mantidos pela Convenção Batista Brasileira mostram o esforço educacional desses protestantes. A Igreja Universal, do bispo Edir Macedo, gere o projeto Ler e Escrever, que visa alfabetizar por meio da Bíblia. Segundo o bispo Honorilton Gonçalves, 1,2 milhão de pessoas já passaram pelos bancos do Ler e Escrever.
E haja o que ler. As editoras evangélicas são um estouro empresarial que só tem concorrente entre as casas que produzem livros didáticos -- com a diferença de que elas não possuem a clientela garantida pelo governo. De suas gráficas saíram no ano passado 21 milhões de exemplares de livros, revistas, bíblias e jornais. A maior fatia é de revistas e jornais, com 15 milhões, seguida pelas bíblias, 3,5 milhões de cópias. Em 1995, a produção total foi de 9 milhões, o que resulta num crescimento de 130% em apenas um ano. Só no ano passado foram lançadas noventa novas revistas e jornais, 396 livros inéditos, 61 modelos de bíblia. Para quem acha que essas leituras servem apenas ao fanatismo, lembre-se que hoje nem os setores que empregam a mão-de-obra mais desqualificada, como a admitida na construção civil ou para os serviços domésticos, aceitam trabalhadores analfabetos.
Reformas -- O líder da Assembléia de Deus brasileira, a maior igreja evangélica do país, o cearense José Wellington Bezerra da Costa, bacharel em direito, é testemunha e co-autor desses êxitos. Pai de seis filhos -- três são pastores, uma é sua secretária, outra trabalha com crianças e um, médico, dá assistência ao pessoal da igreja --, Wellington dirige a maior das igrejas evangélicas. São 2,9 milhões de fiéis, conduzidos por 10.000 pastores. É tanta gente que a convenção geral que elege o presidente da Assembléia, a cada dois anos, reúne cerca de 5.000 pastores. A última delas, em janeiro, foi no Estádio do Mineirinho, em Belo Horizonte. São 130.000 casas de oração, incluindo as igrejas, desde uma pequena tapera alugada até templos que acolhem 10.000 pessoas, como uma antiga fábrica de tapetes comprada há seis meses num bairro operário de São Paulo. Na mesma região, já funciona outro templo com capacidade para 3.500 pessoas. No último domingo de cada mês há batismos -- entre 1.000 e 1.500 pessoas são batizadas de uma só vez.
Três dos quatro últimos presidentes receberam o pastor Wellington em audiência -- José Sarney, Fernando Collor de Mello e Fernando Henrique Cardoso. No encontro com FHC, em outubro passado, Wellington deu seu recado: "Eu disse que nós somos 100% contrários à união civil entre homossexuais, 100% contrários à liberação do aborto, 100% contrários às drogas e 100% contrários ao Movimento dos Sem-Terra, porque ele fere o direito de propriedade, e disse que a Assembléia de Deus ora e dá apoio às reformas".
A força da organização está nos passos de formiga de cada um de seus membros. A Assembléia de Deus é menos centralizada que a Igreja Católica, muito mais permeável, portanto, à pressão dos fiéis. Apesar dos 100% empenhados contra o MST pelo pastor Wellington, nos acampamentos de sem-terra e nos cultos ecumênicos realizados em favor da reforma agrária sempre está um pastor assembleiano, ladeado por um padre da teologia da libertação, exortando a "companheirada" a prosseguir na luta. Também se encontram evangélicos entre a liderança da PM de Minas Gerais que encerrou quinze dias de greve na semana passada, nos clubes de futebol e até no ministério, onde possuem um representante, Iris Rezende, da Justiça, evangélico de hábitos regulares.
Em todo lugar -- Donos de uma tecnologia de invasão de corações, eles sabem como crescer na periferia e nos ermos rurais. "Quando há um loteamento novo, não esperamos: chegamos na frente, compramos o terreno mais barato e assim que o pessoal chega já tem a igreja para freqüentar", explica o pastor Wellington, exibindo uma visão de religião como tão indispensável quanto água encanada e luz elétrica. Diferentemente da Igreja Católica, com templos cravados nos lugares centrais de cada cidade, os evangélicos se enfiam nos bairros em formação, em bocadas miseráveis, em favelas encarapitadas em morros. Essa logística de ocupação das grandes cidades produz o milagre da multiplicação dos templos, que dá a impressão de que eles estão em todo lugar. Estão mesmo. "Onde tem Coca-Cola, Correios e Bradesco, tem Assembléia de Deus", ironiza Wellington.
É o padre Agnaldo Luiz de Castro, pároco da Igreja Nossa Senhora das Graças de Éden, subúrbio do Rio de Janeiro, quem dá uma das chaves para entender a multiplicação evangélica. Ele sabe o que é isso: sua igreja está cercada por templos protestantes de nomes tão complicados quanto Assembléia de Deus no Trabalho de Cura Divina, Prodígio e Libertação, Assembléia de Deus de Missões, Igreja Pentecostal Shalom e Igreja Evangélica Congregacional, sem contar um templo metodista. "É fácil criar uma igreja cristã não católica porque ninguém vai lá cobrar legitimidade, enquanto na Igreja Católica o padre não pode casar, tem de terminar o 2º grau e fazer sete anos de seminário, estudando três anos de filosofia e quatro de teologia. Isso ainda nos amarra." O que para o padre é defeito, para os evangélicos é princípio religioso. Desde que Martinho Lutero afixou as suas 95 teses na porta da igreja do castelo de Wittemberg, em 1517, e com isso deu origem ao mais espetacular cisma religioso da época moderna, a Reforma Protestante, os crentes acreditam no sacerdócio universal e na autoridade exclusiva da Bíblia. Todos podem falar com Deus, diretamente, sem a intermediação de vigários, e ter acesso direto à palavra divina. Com isso, o indivíduo tem mais responsabilidade, mais consciência, não depende tanto de hierarquias acima dele. Fundamentos básicos da nova fé, esses princípios valem para todas as igrejas ditas evangélicas.
"A perua de Deus" -- Os princípios permanecem, mas mudaram os invólucros. Em busca de um rebanho jovem, as seitas se modernizaram. "Em vez do ascetismo, agora pregam o hedonismo. Em vez de opor-se ao mundo -- antes considerado ninho de pecados --, agora querem integrar-se radicalmente a ele. Adaptaram-se e geraram o maior vetor de acomodação social da atualidade", avalia Ricardo Mariano, sociólogo da USP. Hoje, podem-se encontrar igrejas como a Renascer em Cristo, do "apóstolo" Estevam Hernandes, ex-gerente de marketing da Itautec e da Xerox e cuja esposa, a bispa Sônia Hernandes, é conhecida como "a perua de Deus", tal o seu exibicionismo em qualquer culto. A fala do jovem fiel de classe média da Renascer em Cristo Flávio Lima, 25 anos, dono de uma empresa que organiza eventos esportivos, torna evidente como os ideais de consumo penetraram no mundo antes asceta do protestantismo. "Chegou uma hora em que eu não queria mais ir à missa. Não dava para comparar a missa-Fusca em que eu andava com os cultos-BMW que freqüento agora." Quase uma caricatura. A Renascer é ainda uma igreja pequena, e deve permanecer assim, pela seleção social que acaba fazendo dos fiéis, mauricinhos em boa medida.
É entre os pobres, porque se apresentam como capazes de operar o milagre da prosperidade, que as novas igrejas pentecostais mais crescem. Também é entre eles que mostram sua força como elemento da acomodação social de que falou o sociólogo Ricardo Mariano. Num estudo com jovens evangélicos da periferia do Rio de Janeiro, a antropóloga Regina Novaes, do Instituto de Estudos da Religião, descobriu, por exemplo, que as igrejas evangélicas se afirmaram como uma opção ao tráfico de drogas. "Vi muitos meninos que trabalhavam para os chefes locais converter-se. Foi a forma de escapar à criminalidade." Mas essa adesão de adolescentes só foi possível porque as novas igrejas também se renovaram. Música funk, rap, dança, biquíni e sunga, que deixariam um crente de antigamente roxo de vergonha, são permitidos pelos novos pastores.
A concorrência dos soldados renovados de Deus obrigou a antes ultratradicionalista Assembléia a mudar. O pastor Wellington diz que sua igreja ainda não tolera mulher vestida com calças compridas -- "Não se ache na mulher a roupa do homem", diz a Bíblia. Em compensação, ele não vê nada de mais em seus fiéis usarem métodos contraceptivos artificiais. "Seria hipocrisia ir contra isso, embora eu ache melhor o método natural", diz. Até 1989, os seguidores dessa igreja não podiam sequer olhar para a televisão. Hoje, a Assembléia tem duas geradoras de programação e 47 repetidoras.
"Dinheiro, saúde e felicidade", prega sem peias o bispo Edir Macedo, "são a prova da bênção divina." E o fiel testa o merecimento dessa bênção ao fazer "apostas" com Deus, na forma das "ofertas em dinheiro", Se Deus acreditar na sinceridade do ofertante, dizem os pastroes, concederá a graça desejada. Causa repugnância a adeptos de outras igrejas. Isso sem falar no dízimo. Pode ser repugnante esse mercado de Deus. Mas o fato de pregar que o paraíso é aqui e agora -- depende de acreditar, pagar e trabalhar -- tem conseguido movimentar uma legião de miseráveis, que não mais se acabrunham diante das vicissitudes da vida, à espera do paraíso de além-túmulo. Seiscentos mil católicos deixam a cada ano a guarda do Vaticano para ingressar nessa aventura.
O queridinho dos intelectuais
No seu rol de amizades estão personalidades díspares como o comediante Chico Anysio, o sociólogo Betinho e os ex-candidatos à Presidência da República Luís Inácio Lula da Silva e Leonel Brizola. Ele já travou longas conversas telefônicas com o petista e recebeu Brizola para comer um tambaqui amazônico em sua casa. Na semana passada, apareceu sorridente, ao lado de uma bela morena, numa foto de coluna social. Já vendeu 3,2 milhões de livros no Brasil. Seu nome é Caio Fábio D'Araújo Filho, pastor da Igreja Presbiteriana Bethânia, que, aos 42 anos, se firmou como símbolo de algo que os amigos chamam de "evangélicos éticos" e os inimigos, entre os quais se encontra um leque também amplo, como o bispo Edir Macedo e o governador do Rio de Janeiro, Marcello Alencar, classificam de "evangélicos chiques".
Lançado há duas semanas, o 93º livro de Caio Fábio, Confissões do Pastor, já vendeu quase toda a tiragem inicial, de 20 000 exemplares. No livro, autobiográfico, pontuado pelas confissões de Santo Agostinho -- uma heresia do ponto de vista dos evangélicos ortodoxos --, o pastor revela que foi um jovem rebelde, promíscuo e desorientado, consumidor voraz de bebida e drogas, sempre às voltas com mulheres e brigas. Amazonense, morando no Rio desde os 15 anos, ele lembra que, suicida, chegou a andar de motocicleta na contramão de uma avenida em Manaus e cogitou dar um tiro na cabeça. Como era de esperar numa obra desse tipo, lá pelas tantas o pastor explica que só não fez isso porque, antes, teve uma visão e se converteu.
Caio Fábio quebrou o preconceito contra os crentes e ganhou ares de pastor cult ao tomar a frente de movimentos sociais. É dele o projeto da Fábrica de Esperança, onde são atendidas mensalmente 15 000 pessoas, em cursos profissionalizantes e assistência médica, odontológica e psicossocial. Casado há 23 anos, pai de quatro filhos, o amazonense leva uma vida confortável num condomínio fechado em Itaipu, Niterói. Tem um Omega 95, celular e ganha por mês de 8 000 a 10 000 reais, entre o salário de pastor e os direitos autorais de seus livros.
A bênção e o dinheiro -- Ele não exerce atividades cotidianas de pároco há treze anos. Dedica-se aos projetos da organização cristã não-governamental Visão Nacional de Evangelização, Vinde, um complexo de comunicação, com uma editora, uma revista mensal que vende 60 000 exemplares, uma rádio AM no Rio e um canal de televisão, com transmissão para Rio, Goiânia, Anápolis e, em breve, Curitiba e Brasília. Ele também tem um programa semanal na TV Manchete. Já foi duas vezes presidente da Associação Evangélica Brasileira -- hoje é presidente de honra. Seu santo só não cruza com o do bispo Edir Macedo, da Igreja Universal do Reino de Deus. "Não acho que a bênção de Deus se alcança com dinheiro como ele prega", diz o pastor.
Com reportagem de Franco Iacomini, de Curitiba, Manoel Fernandes,
de Salvador, e Virginie Leite, do Rio de Janeiro.
mercredi 27 mai 2009
Jürgen Moltmann, artigo
Com Jesus, da história da morte à história da vida eterna. Jürgen Moltmann
Em artigo para o jornal Avvenire, 24-05-2009, o teólogo alemão Jürgen Moltmann, considerado um dos maiores pensadores cristãos vivos, aborda a relação entre os estudiosos do Novo Testamento e os teólogos. Segundo ele, a base de leitura é o mesmo livro: o Novo Testamento. "Certamente, lemo-lo com olhos diferentes e com interesses diferentes, mas trata-se das mesmas palavras e ideias, é a mesma mensagem que nós lemos", afirma. "O que, portanto, dizem os estudiosos do Novo Testamento aos teólogos, e o que dizem os teólogos a quem estuda o Novo Testamento, na leitura comum da Escritura?". A tradução é de Moisés Sbardelotto.
Eis o artigo.
A relação entre os estudiosos do Novo Testamento e os teólogos, e vice-versa, nem sempre foi das melhores, porque os primeiros devem conduzir uma pesquisa crítica, e os segundo devem dar formulação à certeza da fé. A exegese do Novo Testamento é marcada pela tendência moderna a ceder ao historicismo, enquanto a teologia é marcada por aquela que pode ser compreendida como filosofia cristã da religião, e, desse modo, ambas se afastam muito uma da outra, para não interferir e não se perturbar reciprocamente.
Mas há também as referências àquilo que nos é comum. A base da nossa leitura é o mesmo livro: o Novo Testamento, no contexto do cânone bíblico. Certamente, lemo-lo com olhos diferentes e com interesses diferentes, mas trata-se das mesmas palavras e ideias, é a mesma mensagem que nós lemos.
O que, portanto, dizem os estudiosos do Novo Testamento aos teólogos, e o que dizem os teólogos a quem estuda o Novo Testamento, na leitura comum da Escritura? A resposta é ao mesmo tempo simples e difícil, exatamente como ocorre no encontro do apóstolo Filipe com o "funcionário etíope de Candace". Este, na sua carruagem, lia o profeta Isaías e, exatamente no momento em que estava lendo o capítulo 53 chegou a "Gaza, que é deserta" (como hoje). Filipe para o carro e interpela o leitor da Bíblia com a pergunta hermenêutica: "Entendes o que estás lendo?", e "partindo dessa passagem da Escritura, anunciou-lhe (o Evangelho de) Jesus" (At 8, 35). Compreendemos aquilo que lemos e aferramos bem aquilo que sabemos?
Essa é a pergunta comum a exegetas do Novo Testamento e a teólogos, e se essa é a pergunta teológica que se volta aos exegetas do Novo Testamento, que conhecem os seus textos do ponto de vista da crítica textual e do ponto de vista histórico, isso, porém, pressupõe para os teólogos que eles também leiam o Novo Testamento com a ajuda dos exegetas. Portanto, a pergunta hermenêutica se volta a nós: "O que tu queres compreender, tu o lês também?".
Feliz é o exegeta do Novo Testamento que sabe unir em si ambas as coisas, como Charles Moule soube fazer. Infeliz o teólogo que não sabe fazer isso. Mas como é possível unir as duas coisas, para responder à pergunta hermenêutica de modo confiável? [...]
Se queremos compreender os textos do Novo Testamento, no sentido dos seus autores, é preciso entrar em relação com a sua mensagem cristã, a mensagem que eles pretendem comunicar. Eu devo compreender o que eles querem anunciar, relatar ou descrever como Evangelho de Jesus Cristo. Isso não significa que eu deva estar de acordo ou que só os cristãos podem compreender hoje os cristãos de então. Também não devo ser necessariamente um crente para poder estudar teologia. Mas a exegese católica de textos neotestamentários lê os textos ao pé da letra e procura aferrar o seu conteúdo.
Nesse sentido, o contexto, o kairós e a comunidade de origem desses textos desempenham um papel importante, ao qual é preciso sempre prestar atenção. Mas os textos não têm apenas esses ambientes de referência, mas sim o seu conteúdo específico, tanto que devemos considerar as suas afirmações também segundo o que é dito. Uma pesquisa teológica sobre a teologia do apóstolo Paulo na Carta aos Romanos, no seu tempo e na sua situação, é apenas um lado da exegese teológica. Por outro lado, coloca-se a pergunta sobre o que essa mensagem teológica pode significar para nós hoje. Aqui se levanta a ponte hermenêutica "from what meant to what it means" (do que significava para o que significa) e aqui inicia o trabalho do teólogo. Ele deve ler a Carta de Paulo aos Romanos como se ela não fosse escrita apenas aos cristãos da Roma de então, mas também a eles, leitores, e aos seus contemporâneos de hoje. O teólogo pode, então, prescindir do trabalho teológico do exegeta do Novo Testamento e fazer surgir, como que por encanto, a sua própria exegese?
Tomemos Karl Barth como exemplo. O seu livro "Carta aos Romanos" (Fonte Editorial, 2002), que foi publicado em 1922, deu vida à nova teologia dialética e foi, para muitos, a obra teológica mais importante da primeira metade do século XX. O prefácio inicia com as frases: "Paulo falou aos seus contemporâneos como um filho do seu tempo. Mas muito mais importante do que essa verdade é esta outra: que ele fala, como profeta e apóstolo do Reino de Deus, a todos os homens de todos os tempos". [...] Toda a minha atenção esteve voltada para o fato de penetrar com o olhar no aspecto histórico segundo o espírito da Bíblia, que é o Espírito eterno". É preciso confrontar isso com o texto e com aquilo que se encontra nele até que o muro entre o primeiro século e o nosso se torne transparente, até que Paulo fale lá, e o homem escute aqui. [...] A questão hermenêutica é a questão do 'como': como devo compreendê-lo? A hermenêutica não dá respostas à questão do "por que": por que devo compreendê-lo? Ela pressupõe a resposta positiva.
"Por isso: por que fazemos esse esforço? Talvez porque o Novo Testamento é o documento fundador da tradição cristã e caracterizou a história da nossa cultura europeia? Porém, para isso, bastariam a pesquisa históricas sobre os documentos e a sua história dos efeitos no cristianismo. Talvez porque o Novo Testamento deve ser lido, explicado e pregado em toda liturgia da Igreja? Isto é verdade: o Novo Testamento não tem o seu 'Sitz im Leben' apenas na terra da Judeia de dois mil anos atrás, mas também nos altares e nos púlpitos das igrejas e nas mãos dos leitores de hoje. A palavra que suscita a fé, que motiva o amor e encoraja à esperança torna Cristo presente. Para compreender essa palavra, a exegese teológica e uma correspondente teologia eclesial do presente são necessárias. Mas tudo isso é suficiente? Agora, eu falo como teólogo: a ponte hermenêutica, que leva do Jesus histórico e do seu Evangelho a nós hoje, é a ponte sobre o rio Esquecimento. Ela é também a ponte sobre o rio daquilo que passa, porque, no fundo, é, em primeiro lugar e em definitivo, o rio do Jesus histórico ao Cristo presente. É a ponte da ressurreição, colocada sobre o abismo da morte. Só na força da sua ressuscitação da morte de cruz no ano 33, por obra de Deus, Jesus está hoje presente.
"Se partimos da presença do Ressuscitado, então recordamos a vida, a obra e a morte de Jesus como 'a história de um vivente', justamente como os evangelistas relataram a sua vida e a paixão à luz da sua ressurreição. A ponte hermenêutica tem o seu fundamento nessa mudança indedutível e inesperada da morte à vida, que nós reconhecemos como ocorrida em Jesus Cristo: o seu fim temporal se tornou o seu início eterno. Sobre a ponte hermenêutica, percebemos a história da morte de Jesus Cristo na luz do futuro da vida.
"Olhemos para trás para o futuro passado de Cristo e vivamos no presente daquele que virá. Na história de morte dos historiadores, Jesus se torna 'histórico' e permanece estranho a nós. Na história de futuro da vida eterna, nós o compreendemos e até acendemos a chama da esperança sobre os cemitérios da história, porque Jesus não só ressuscitou da sua morte de cruz, mas ressuscitou 'dos mortos', também como o primogênito daqueles que adormeceram e como o autor da verdadeira vida.
"Desse modo, alcança-se o horizonte universal de que nos fala o Novo Testamento. No Cristo da Igreja há mais do que a Igreja: trata-se da vinda de Deus e do futuro do novo mundo da vida, que supera a morte. Compreendemos o que lemos? Quando Lemos o Novo Testamento e temos profunda inteligência dele, nos aproximamos de recordações surpreendentes e da luz ofuscante de uma grande esperança. Portanto, Filipe provavelmente tinha razão, quando, 'começando dessa passagem da Escritura, anunciou o Evangelho de Jesus'".
Fonte
Instituto Humanitas Unisinos
Em artigo para o jornal Avvenire, 24-05-2009, o teólogo alemão Jürgen Moltmann, considerado um dos maiores pensadores cristãos vivos, aborda a relação entre os estudiosos do Novo Testamento e os teólogos. Segundo ele, a base de leitura é o mesmo livro: o Novo Testamento. "Certamente, lemo-lo com olhos diferentes e com interesses diferentes, mas trata-se das mesmas palavras e ideias, é a mesma mensagem que nós lemos", afirma. "O que, portanto, dizem os estudiosos do Novo Testamento aos teólogos, e o que dizem os teólogos a quem estuda o Novo Testamento, na leitura comum da Escritura?". A tradução é de Moisés Sbardelotto.
Eis o artigo.
A relação entre os estudiosos do Novo Testamento e os teólogos, e vice-versa, nem sempre foi das melhores, porque os primeiros devem conduzir uma pesquisa crítica, e os segundo devem dar formulação à certeza da fé. A exegese do Novo Testamento é marcada pela tendência moderna a ceder ao historicismo, enquanto a teologia é marcada por aquela que pode ser compreendida como filosofia cristã da religião, e, desse modo, ambas se afastam muito uma da outra, para não interferir e não se perturbar reciprocamente.
Mas há também as referências àquilo que nos é comum. A base da nossa leitura é o mesmo livro: o Novo Testamento, no contexto do cânone bíblico. Certamente, lemo-lo com olhos diferentes e com interesses diferentes, mas trata-se das mesmas palavras e ideias, é a mesma mensagem que nós lemos.
O que, portanto, dizem os estudiosos do Novo Testamento aos teólogos, e o que dizem os teólogos a quem estuda o Novo Testamento, na leitura comum da Escritura? A resposta é ao mesmo tempo simples e difícil, exatamente como ocorre no encontro do apóstolo Filipe com o "funcionário etíope de Candace". Este, na sua carruagem, lia o profeta Isaías e, exatamente no momento em que estava lendo o capítulo 53 chegou a "Gaza, que é deserta" (como hoje). Filipe para o carro e interpela o leitor da Bíblia com a pergunta hermenêutica: "Entendes o que estás lendo?", e "partindo dessa passagem da Escritura, anunciou-lhe (o Evangelho de) Jesus" (At 8, 35). Compreendemos aquilo que lemos e aferramos bem aquilo que sabemos?
Essa é a pergunta comum a exegetas do Novo Testamento e a teólogos, e se essa é a pergunta teológica que se volta aos exegetas do Novo Testamento, que conhecem os seus textos do ponto de vista da crítica textual e do ponto de vista histórico, isso, porém, pressupõe para os teólogos que eles também leiam o Novo Testamento com a ajuda dos exegetas. Portanto, a pergunta hermenêutica se volta a nós: "O que tu queres compreender, tu o lês também?".
Feliz é o exegeta do Novo Testamento que sabe unir em si ambas as coisas, como Charles Moule soube fazer. Infeliz o teólogo que não sabe fazer isso. Mas como é possível unir as duas coisas, para responder à pergunta hermenêutica de modo confiável? [...]
Se queremos compreender os textos do Novo Testamento, no sentido dos seus autores, é preciso entrar em relação com a sua mensagem cristã, a mensagem que eles pretendem comunicar. Eu devo compreender o que eles querem anunciar, relatar ou descrever como Evangelho de Jesus Cristo. Isso não significa que eu deva estar de acordo ou que só os cristãos podem compreender hoje os cristãos de então. Também não devo ser necessariamente um crente para poder estudar teologia. Mas a exegese católica de textos neotestamentários lê os textos ao pé da letra e procura aferrar o seu conteúdo.
Nesse sentido, o contexto, o kairós e a comunidade de origem desses textos desempenham um papel importante, ao qual é preciso sempre prestar atenção. Mas os textos não têm apenas esses ambientes de referência, mas sim o seu conteúdo específico, tanto que devemos considerar as suas afirmações também segundo o que é dito. Uma pesquisa teológica sobre a teologia do apóstolo Paulo na Carta aos Romanos, no seu tempo e na sua situação, é apenas um lado da exegese teológica. Por outro lado, coloca-se a pergunta sobre o que essa mensagem teológica pode significar para nós hoje. Aqui se levanta a ponte hermenêutica "from what meant to what it means" (do que significava para o que significa) e aqui inicia o trabalho do teólogo. Ele deve ler a Carta de Paulo aos Romanos como se ela não fosse escrita apenas aos cristãos da Roma de então, mas também a eles, leitores, e aos seus contemporâneos de hoje. O teólogo pode, então, prescindir do trabalho teológico do exegeta do Novo Testamento e fazer surgir, como que por encanto, a sua própria exegese?
Tomemos Karl Barth como exemplo. O seu livro "Carta aos Romanos" (Fonte Editorial, 2002), que foi publicado em 1922, deu vida à nova teologia dialética e foi, para muitos, a obra teológica mais importante da primeira metade do século XX. O prefácio inicia com as frases: "Paulo falou aos seus contemporâneos como um filho do seu tempo. Mas muito mais importante do que essa verdade é esta outra: que ele fala, como profeta e apóstolo do Reino de Deus, a todos os homens de todos os tempos". [...] Toda a minha atenção esteve voltada para o fato de penetrar com o olhar no aspecto histórico segundo o espírito da Bíblia, que é o Espírito eterno". É preciso confrontar isso com o texto e com aquilo que se encontra nele até que o muro entre o primeiro século e o nosso se torne transparente, até que Paulo fale lá, e o homem escute aqui. [...] A questão hermenêutica é a questão do 'como': como devo compreendê-lo? A hermenêutica não dá respostas à questão do "por que": por que devo compreendê-lo? Ela pressupõe a resposta positiva.
"Por isso: por que fazemos esse esforço? Talvez porque o Novo Testamento é o documento fundador da tradição cristã e caracterizou a história da nossa cultura europeia? Porém, para isso, bastariam a pesquisa históricas sobre os documentos e a sua história dos efeitos no cristianismo. Talvez porque o Novo Testamento deve ser lido, explicado e pregado em toda liturgia da Igreja? Isto é verdade: o Novo Testamento não tem o seu 'Sitz im Leben' apenas na terra da Judeia de dois mil anos atrás, mas também nos altares e nos púlpitos das igrejas e nas mãos dos leitores de hoje. A palavra que suscita a fé, que motiva o amor e encoraja à esperança torna Cristo presente. Para compreender essa palavra, a exegese teológica e uma correspondente teologia eclesial do presente são necessárias. Mas tudo isso é suficiente? Agora, eu falo como teólogo: a ponte hermenêutica, que leva do Jesus histórico e do seu Evangelho a nós hoje, é a ponte sobre o rio Esquecimento. Ela é também a ponte sobre o rio daquilo que passa, porque, no fundo, é, em primeiro lugar e em definitivo, o rio do Jesus histórico ao Cristo presente. É a ponte da ressurreição, colocada sobre o abismo da morte. Só na força da sua ressuscitação da morte de cruz no ano 33, por obra de Deus, Jesus está hoje presente.
"Se partimos da presença do Ressuscitado, então recordamos a vida, a obra e a morte de Jesus como 'a história de um vivente', justamente como os evangelistas relataram a sua vida e a paixão à luz da sua ressurreição. A ponte hermenêutica tem o seu fundamento nessa mudança indedutível e inesperada da morte à vida, que nós reconhecemos como ocorrida em Jesus Cristo: o seu fim temporal se tornou o seu início eterno. Sobre a ponte hermenêutica, percebemos a história da morte de Jesus Cristo na luz do futuro da vida.
"Olhemos para trás para o futuro passado de Cristo e vivamos no presente daquele que virá. Na história de morte dos historiadores, Jesus se torna 'histórico' e permanece estranho a nós. Na história de futuro da vida eterna, nós o compreendemos e até acendemos a chama da esperança sobre os cemitérios da história, porque Jesus não só ressuscitou da sua morte de cruz, mas ressuscitou 'dos mortos', também como o primogênito daqueles que adormeceram e como o autor da verdadeira vida.
"Desse modo, alcança-se o horizonte universal de que nos fala o Novo Testamento. No Cristo da Igreja há mais do que a Igreja: trata-se da vinda de Deus e do futuro do novo mundo da vida, que supera a morte. Compreendemos o que lemos? Quando Lemos o Novo Testamento e temos profunda inteligência dele, nos aproximamos de recordações surpreendentes e da luz ofuscante de uma grande esperança. Portanto, Filipe provavelmente tinha razão, quando, 'começando dessa passagem da Escritura, anunciou o Evangelho de Jesus'".
Fonte
Instituto Humanitas Unisinos
samedi 9 mai 2009
SOCIALISME ET RELIGION dans le processus de fondation du PARTI DES TRAVAILLEURS au BRESIL
ÉTHIQUE SOCIALE ET SOCIALISME RELIGIEUX. Actes du XV Colloque International Paul Tillich, Toulouse, 2003, Münster 2005 (48-58: Reimer, Allen J.: Tillich on right and law/59-78: Donnelly, Brian: The persistence of Marxism in the American writings of Paul Tillich/79-90: Galibois, Roland: Thomas More, Karl Marx et Paul Tillich/91-101: Stone, Ronald H.: Reinhold Niebuhr and Paul Tillich in New York: political conversations/102-112: Gabus, Jean P.: Ontologie, théologie et politique dans les causeries radiophoniques de Paul Tillich durant la seconde guerre mondiale/113-122: O'Keeffe, Terence: Tillich et l'école de Francfort/125-149: Ehrwein, Céline: Forces et faiblesses de la réflexion politique de Paul Tillich : évaluation critique du socialisme religieux à partir de Hannah Arendt/150-162: Gounelle, André: Une éthique sociale pour aujourd'hui?/163-172: Junker, Théo: Principe protestant et principe socialiste : la double racine du socialisme religieux/173-189: Stenger, Mary A.: La justice créatrice dans les écrits de Tillich sur le socialisme religieux et dans "Amour, pouvoir et justice"/190-201: James, Robison B.: Le socialisme religieux de Tillich comme ressource pour une éthique sociale pragmatiste aujourd'hui/202-210: Toniutti, Emmanuel: Implications pratiques de l'éthique sociale de Paul Tillich dans le management de l'entreprise/211-232: Richard, Jean: Doctrine sociale et théologie de la libération: le débat autour du socialisme/233-249: Higuet, Etienne: Le "socialisme religieux" de Paul Tillich et le socialisme brésilien de "l'ère Lula" : essai de lecture comparative/250-258: Pinheiro, Jorge: Politique et religion: un éclairage tillichien sur le socialisme brésilien/259-266: Müller, Denis: Éthique sociale, religions et socialisme à l'ère de la mondialisation/269-272: Tillich, Paul: [Der Nationalsozialismus und die Französische Revolution] - Le national-socialisme et la révolution française: discours radiodiffusé du 5 juillet 1943).
SOCIALISME ET RELIGION dans le processus de fondation du PARTI DES TRAVAILLEURS au BRESIL.LECTURE A PARTIR DE PAUL TILLICH
Par JORGE PINHEIRO
Introdução
Paul Tillich em A Decisão Socialista [Introdução: As duas raízes do pensamento político, Potsdam 1933, Gesammelte Werke, II, pp. 219-365] afirma que o socialismo é um movimento de oposição, de mão dupla, um movimento de oposição à sociedade burguesa, mas enquanto mediação, uniu-se à sociedade burguesa na oposição às formas feudais e patriarcais de sociedade. Entender esta raiz do socialismo, ajudaria a entender as raízes do pensamento político que lhe deu origem. Tillich parte de uma teologia política onde seu referencial primeiro é o ser. Nesse sentido, podemos dizer que faz uma fenomenologia política quando analisa questões como o ser, a origem do pensamento político, enquanto mito, e a partir daí procura trazer à tona os elementos não reflexivos do pensamento político conservador. E é a partir da análise do pensamento conservador que Tillich vai explicar o surgimento da democracia e do socialismo.
Para Tillich, a distância que separa ser e consciência é necessária para que o ser se eleve à consciência. A consciência supõe não somente uma ligação ao ser, mas também uma distancia que permita reflexão. Assim, o que é abalado em sua ligação original com um grupo ou com uma classe é chamado a dar consciência a outra classe que não é a sua. Marx e Lênin são o exemplo mais evidente disto. Eles mostram que a relação entre a situação social e o pensamento político deve se elevar da esfera biográfica para aquela das relações funcionais. A palavra princípio serve para caracterizar de maneira global os grupos políticos.
O pensamento tem como tarefa extrair uma multiplicidade de fenômenos que constitui a característica comum a todos os indivíduos. Normalmente, se cumpre esta tarefa com ajuda do conceito de essência. Desde Platão, a relação entre essência e o fenômeno domina no Ocidente a teoria do conhecimento. Porém a lógica da essência não é suficiente para explicar as realidades históricas. A essência de um fenômeno histórico é uma abstração vazia, de onde se expulsou a força viva de história. Por isso, não se pode entender o socialismo se não experimentar a exigência de sua justiça como uma exigência do incondicionado. Quem não é confrontado pelo socialismo não pode falar do socialismo, a não ser enquanto expressão que vem do exterior . Não pode falar dele em verdade, porque é contrário às tendências políticas que defende. Aí está o nó da origem.
1. AS MATRIZES DA FORMAÇÃO DO PT
1.1. O marxismo: ortodoxia e heterodoxia
Em artigo publicado em Das neue Deutschland , em 1919, Paul Tillich afirma que o socialismo é o produto da evolução espiritual e econômica, que foi lentamente preparado e que se impõe com a Renascença, a Reforma e com o surgimento do capitalismo. O socialismo surge em oposição à cultura autoritária e unitária da Idade Média e sedimenta suas bases nas criações culturais dos últimos séculos.
O socialismo só pode ser compreendido a partir desta evolução e sua permanência está ligada diretamente a este desenvolvimento. Deve-se reafirmar, porém, que é do interior do cristianismo que brota o socialismo e que um socialismo sem estes pressupostos é uma quimera, e que aqueles que defendem o socialismo devem defender também os princípios sobre os quais ele repousa . A organização espiritual e econômica da Idade Média, afirma Tillich, estava fundada sobre um sistema de centralização da autoridade que, ancorado no sobrenatural, associava a natureza e o supranatural numa unidade poderosa , à qual os povos e os espíritos estavam sujeitos.
Mas a partir do Iluminismo, explica Tillich, no domínio espiritual, político, econômico, nada pode ficar de positivo que não seja pensado, confrontado com a consciência pensante, medido e negado. Os sistemas de fé, as formas de Estado, as definições econômicas sofrem o assalto da autonomia, que não tem nenhum respeito pelas autoridades humanas e divinas . Lamenta-se a perda do sistema de autoridade ou festeja-se tal acontecimento como um passo em direção à maturidade cultural. De todas as maneiras, há o reconhecimento de que a vida cultural não pode ser pensada sem autonomia e que o socialismo está presente em todos os lugares. Líderes e camponeses tem o mesmo sentimento, conquistar a liberdade das mãos do autoritarismo irracional, seja ele imanente ou transcendente. Este é o primeiro fato que o cristianismo deve levar em conta , conclui Tillich.
Do lado positivo, explica Tillich, a autonomia significa o reinado da razão . Pela primeira vez, depois de um milênio e meio, a razão humana não vê limites para seu poder. Através da análise ela penetra as profundezas da vida cultural e social, simultaneamente, e através da síntese dos elementos descobertos apresenta um sistema novo, racional. Depois de séculos de arbítrio, os homens são possuídos por uma vontade de dar forma ao mundo de maneira racional . E a vida econômica também deve ser formulada racionalmente. Não é o prazer de certos indivíduos ou povos que deve fazer a lei, mas é a humanidade inteira, que é sujeito e objeto dos processos econômicos, quem deve fazê-lo a partir de critérios racionais .
A mesma autonomia que substituiu a autoridade, a partir da razão precisa construir um mundo sem arbítrio. Eis o segundo fato que o cristianismo deve levar em conta . Mas, explica Tillich, sem dúvida foi Marx quem introduziu o pensamento histórico objetivo do idealismo alemão no socialismo, ao dizer que a razão precisa ser separada da decisão humana e colocada ao nível das necessidades objetivas. O processo dialético é racional e a fé nele é uma fé na razão: uma fé que adquire uma força enorme graças à sua amarração metafísica objetiva e que se tornaria o dogma fundamental de milhões de pessoas .
Foi o processo da própria história que fez o mundo conformar-se à razão e levou este combate a tornar-se vitorioso. E foi essa vitória que deu cara ao mundo que conhecemos como moderno. Para Tillich, a fé na razão está fundamentada sobre os resultados conquistados pela ciência da natureza. Mas atrás da ciência da natureza veio a cultura moderna. Preparada de várias maneiras a partir do fim da Idade Média, ele surge com uma força irresistível na Renascença e conduziu a uma afirmação alegre deste mundo, que durante muito tempo foi negado, desdenhado e rebaixado por um outro onírico e místico .
Os outros mundos empalideceram diante da nova astronomia, diante da validade universal das leis da natureza, diante da beleza redescoberta do real na arte, diante da consciência de unidade do finito e do infinito na filosofia da natureza . É assim que a imanência ressoa no humanismo e na filosofia das Luzes, com Goethe e no idealismo alemão, da mesma maneira que o socialismo se une à consciência da autonomia e à fé do poder formador da razão na construção de um sentimento unitário da vida e do mundo. Este é o terceiro fato que o cristianismo deve levar em conta , afirma Tillich. Se o socialismo é, nesse sentido, uma herança da cultura universal, ele tem, no entanto, uma originalidade que não se restringe aos conceitos, mas à experiência vivida.
O conceito de humanidade, diz Tillich, que manifesta a vitória da idéia de tolerância, não teve na evolução da burguesia mais que uma realização acidental. A consciência da humanidade é neutralizada pela consciência de classe, educação e de dependência nacional . A humanidade se colocou antes de tudo no campo das confissões, sob formas absolutamente contrárias a idéia de uma transformação racional do mundo. É somente pela pressão sobre os trabalhadores nos primeiros decênios do moderno capitalismo, explica Tillich, que nasceu uma consciência solidária, no coração do qual está presente o sentimento universal de humanidade, que se opõe àquele que vê no homem um meio e não um fim .
O combate contra o feudalismo, o capitalismo, o nacionalismo e o confessionalismo constitui a expressão negativa da consciência incondicional de humanidade, que derruba barreiras e reconhece o homem em cada homem. Este é o quarto fato que o cristianismo deve levar em conta, conclui Tillich. O que fica claro em Tillich é que autonomia e socialismo são processos históricos que se complementam, mas que não são idênticos. O processo de autonomia vivido pela sociedade européia no período que se abre a partir do Iluminismo e que põe em xeque a tradição e o autoritarismo, servirá de base para a ação socialista. Autonomia é o momento supremo da razão e da imanência, e é a partir daí que o socialismo vai construir um sentimento unitário da vida e do mundo, embora sua originalidade não se limite aos conceitos, mas à experiência vivida.
A luta dos trabalhadores contra a alienação e exclusão social vai gerar consciência solidária e sentimento universal de humanidade. Mas, ainda assim, ao se limitar ao campo da autonomia, sem uma atitude que permita à incondicionalidade apoderar-se da própria autonomia, o socialismo deixa aberto o caminho para o autoritarismo e o arbítrio.
Quando olhamos o socialismo latino-americano a partir da crítica ao eurocentrismo, podemos dizer que hoje se repete o que sucedeu há quinhentos anos com a conquista da América: o homem europeu, e por extensão estadunidense, constitui o sentido do ser latino-americano e do brasileiro, encontrado a partir da totalidade de sentido européia. Na verdade, o habitante da América índia, negra e mestiça não foi descoberto como outro, mas como o mesmo já conhecido e, em seguida negado, ocultado e transformado em objeto do ego moderno.
O ponto fundamental dessa crítica é que a Europa, num primeiro momento, e Estados Unidos depois descobriram um novo espaço geográfico, compreendeu-o como horizonte fundamental do ser do centro, campo de batalha no qual exerce uma práxis de dominação. Tal formulação desconstrói o sistema ontológico da dominação, a partir da exterioridade do outro como sujeito ético, como rosto e como corporeidade, que grita e reclama justiça. Os excluídos do sistema cultural ocidental devem ser tomados como centro de um novo modelo de racionalidade, ético-crítica.
Diante das massas crescentes de deserdados que tomam consciência de sua negação originária como subjetividade excluída ou objetivada dentro do sistema dominante, os poderosos utilizam a guerra e, se admitem o diálogo, é no interior de sua comunidade de comunicação hegemônica, que não garante a reprodução e o desenvolvimento da vida humana. A teologia deve pensar a realidade mundial além da fronteira do centro, que distingue entre populações dotadas de direitos e poderes e populações excluídas e utilizadas como instrumentos manipuláveis.
Se entendermos esse processo de construção da dominação, podemos analisar o processo de gestação do Partido dos Trabalhadores a partir da exposição que Tillich faz acerca da passagem da heteronomia à autonomia e, posteriormente, à teonomia, enquanto ciclos que procuram romper a lógica de ferro da dominação. Para ele, os movimentos de massa são encontrados em movimentos religiosos, nos movimentos políticos e raciais de imigrantes e nos movimentos econômicos do socialismo. Embora esses movimentos possam ser encontrados em diversas épocas, também o são em diferentes esferas da cultura. Mas sempre são movimentos de libertação: já que é parteira de escravos, de povos excluídos, ou de escravos livres, trabalhadores assalariados, que a industrialização levou a uma dinâmica de massa que transbordou a história.
2.2. A presença cristã
Mas o exemplo cristão não chega só de além-fronteiras. No Brasil ele é contundente. E Versus explica porque.
Hoje são quase 50 mil Comunidades Eclesiais de Base, organizando cerca de um milhão e quinhentas mil pessoas, no Brasil. Elas identificam o pecado-raiz de toda a opressão: “...esse grande pecado é agora social e se chama sistema capitalista”, concluiu o III Encontro Intereclesial de Comunidades de Base, em julho de 78 na Paraíba. Já não se contam mais nos dedos as Comissões Diocesanas de Justiça e Paz. A Igreja Católica foi, talvez, o primeiro setor organizado, com peso efetivo na sociedade brasileira, a empunhar a bandeira de luta pelos direitos humanos. Ligada às parcelas mais exploradas do povo, sofrendo a perda de padres e freiras perseguidos e mortos, a Igreja se organizou para combater as ameaças à Justiça e à Paz. Deixa, enfim, o regaço dos poderosos, não sem contradições e conflitos dentro de sua própria estrutura.
E para entender os caminhos da catolicidade, o jornal entrevistou D. Adriano Hipólito, bispo de Nova Iguaçu. Mas, explica Versus, qualquer que seja o resultado da reunião, a luta entre as tendências conservadoras da Igreja e os setores progressistas vai continuar. Ela não é um fenômeno apenas superestrutural, ela reflete um processo mais amplo de lutas sociais, e faz parte da movimentação política das massas latino-americanas, hoje num processo irreversível de construção de sua própria história.
Nova Iguaçu era àquela altura, modelo brasileiro de cidade dos pobres e excluídos:
(...) oitavo município mais populoso do país, ali faltam esgotos, escolas, hospitais, transportes, segurança pessoal (reina o esquadrão da morte). Região de operários, funcionários mal remunerados, comerciários, subempregados, que já não podem esperar soluções senão de si próprios.
Diante da desconfiança de muitos socialistas ao engajamento da igreja na luta pelos direitos dos oprimidos, por causa de sua tradição heteronômica, Versus argumenta que
se os homens são aquilo que fazem, a Igreja está sendo aquilo que seus sacerdotes têm praticado. E essa prática de discussão e organização das bases de nossa sociedade nós precisamos compreender e avaliar.
Assim, qual o espírito que orienta o atual trabalho comunitário da Igreja Católica no Brasil? E dom Adriano Hipólito responde:
A Igreja, na sua essência, é comunidade de fé, de esperança e de amor. Sua maior eficiência, fermentadora e renovadora da comunidade humana, sempre dependeu de seu comportamento e de sua atuação com comunidades. Sem dimensão comunitária a Igreja não é Igreja. Sem abertura para os problemas da comunidade/sociedade, a Igreja não está em condições de realizar sua missão, ser continuação da ação libertadora de Jesus Cristo, ser sinal de esperança para o homem angustiado e sofredor.
Mas, Versus quer saber mais: o que são as CEBs, como funcionam, quem as integra? E Dom Hipólito responde:
Comunidade: as pessoas se aproximam livremente, se sentem responsáveis, descobrem e atuam nos mais diversos elementos de interesse comum. Eclesial: o ponto de partida e de chegada, os elementos formadores e aglutinadores, os métodos de ação, etc, são os mesmos da Igreja. Base: a comunidade de base tem como princípio fundamental o relacionamento primário das pessoas: pessoas que se conhecem, que se estimam, se complementam, se ajudam mutuamente. Todos atuamos em nível de base. A CEB, embora não seja constituída para fazer política, tem de se preocupar com os problemas políticos e tem parte ativa no processo político. Tem a preocupação de integrar as pessoas da base no processo social, como direito/dever da pessoa humana, e de levá-la à participação consciente e crítica.
Como jornal socialista, envolvido com a organização dos trabalhadores ao nível sindical e político, Versus quer conhecer o pensamento de seu aliado cristão. E Dom Hipólito esclarece sua posição.
Para participar do processo social, o Povo precisa de instrumentos válidos e eficientes. Entre esses instrumentos estão, por exemplo, os sindicatos e os partidos políticos. Os sindicatos devem ser órgãos de participação eficiente na defesa dos direitos dos seus sindicalizados. Estão a serviço dos trabalhadores como comunidade de trabalho que constrói a Pátria, e não a serviço de grupos do poder, de demagogos e pelegos. O Estado onipotente conseguiu, também no Brasil, corromper a filosofia dos sindicatos, reduzindo-os a instituições de beneficência e lazer.
Um partido trabalhista que corresponde realmente a uma grande corrente do pensamento popular, na classe dos trabalhadores será, mais cedo, ou mais tarde, uma necessidade imperiosa. (...) Mas um Partido Trabalhista que esteja entregue a liderança dos trabalhadores, e não seja manipulado por uma elite burguesa que deseja apenas conquistar o poder.
E já no final da entrevista, Versus faz uma pergunta que traduz não apenas reflexão sociológica, mas também teológica, com profundas implicações políticas para o momento.
Como o senhor vê o possível relacionamento entre Cristianismo e Socialismo diante das necessidades dos trabalhadores?
Sem disfarçar as divergências em pontos fundamentais, podemos admitir uma luta comum por uma causa comum: a justiça social. Quero crer que sem o Cristianismo como pano de fundo, o Socialismo não se explica suficientemente. Muitos elementos do Socialismo são de fato cristãos.
Para dom Hipólito, assim como para Versus, a história da Igreja é passível de muitas críticas. Muitas vezes, suas opções e alianças com os grupos de poder fizeram com que se afastasse e dificultasse seu relacionamento com parte da população excluída de bens e possibilidades.
Tal situação facilitou e potencializou a pregação do ateísmo e do materialismo. Mas, como explica Tillich, não podemos dizer que o ateísmo materialista seja um fenômeno constitutivo do socialismo. Para ele, é uma herança da cultura burguesa, crítica e cética. Essa herança foi adotada pelo socialismo sob a crença de que ajudaria a extirpar a idéia de opressão e abriria o caminho para a construção de um novo mundo, mais justo e digno.
Assim, embora haja razões históricas para criticar a Igreja, o socialismo erra quando nega a existência da base solidária e comunitária do ideal cristão. Versus evita esse erro, quando esclarece aos seus leitores de que se os homens são aquilo que fazem, a Igreja está sendo aquilo que seus sacerdotes têm praticado. E essa prática de discussão e organização das bases de nossa sociedade nós precisamos compreender e avaliar.
Podemos fazer uma leitura deste cristianismo a partir do pensamento de Emmanuel Lévinas. Lévinas reclama prioridade para a vítima na figura dos excluídos. O não matarás, princípio do humanismo de Lévinas, é uma marca constante nos escritos de Dussel. Lévinas é o judeu embebido no pensamento europeu. Mas a cultura européia não tem lugar para o outro, para o judeu oriental Lévinas. De maneira semelhante, Dussel é o excluído da América latina, que faz a critica teológica do pensamento europeu, que não consegue ver o outro.
Há aqui uma hermenêutica que se fundamenta na razão da libertação enquanto imperativo ético: quando se vive num mundo que não permite a produção e reprodução de nossas vidas latino-americanas, em que sentido nos relacionamos com esse mundo? Torna-se evidente que Dussel pretende uma teologia que parta de um retorno à realidade da América Latina. Para ele, a teologia na América Latina nasce da reflexão sobre a realidade econômica, cultural e política do continente. Dussel mostra a necessidade da ruptura com o pensamento latino-americano que pensava a cultura, economia e política latino-americanas a partir da teologia européia. A situação latino-americana é diferente da situação européia. Os caminhos que devem ser percorridos divergem, segundo Dussel, dos caminhos dos países do centro.
Assim, Dussel constrói uma teologia que parte da situação do excluído, e neste sentido o horizonte dos latino-americanos diverge da problemática européia, onde a centralidade do pensamento repousa sobre a dominação. Para ele, por exemplo, o Discurso do Método de Descartes é o manifesto do homem reduzido a ser um sujeito que pensa, e essa metafísica do sujeito, é a “expressão temática da experiência fática do domínio imperial europeu sobre as colônias”, que se concretiza não somente como vontade universal do domínio, mas historicamente como dialética de dominação versus dominado. Assim, afirma, “se existe vontade de poder, existirá alguém que deve sofrer o seu poderio”.
A teologia de Dussel tem por base uma nova história, pois, as histórias universais são européias, e os latino-americanos não podem se ver nessas histórias européias, porque o outro é invisível para elas. Para Dussel, os que se libertam conduzem a história para o seu futuro e constituem o momento essencial da história. Contraposto ao destino europeu e norte-americano, é reservado aos excluídos um destino que criar caminhos para a realização de uma humanização universal. Por isso, os excluídos encontram-se em posição privilegiada. São os excluídos que têm oportunidade de descobrir a situação de opressão, compreendendo quem é o dominador; aquele que crê tudo compreender e que na realidade nada compreende.
Ora, quando a comissão nacional provisória do Partido dos Trabalhadores fez o lançamento público no 1º de Maio de 1979 de sua Carta de Princípios, afirmou que “os males profundos que se abatem sobre a sociedade brasileira não poderão ser superados senão por uma participação decisiva dos trabalhadores na vida da nação. O instrumento capaz de propiciar essa participação é o Partido dos Trabalhadores”. Podemos entender essa declaração a partir da análise de Dussel, quando diz que os excluídos ao descobrir a situação de opressão cria os caminhos para uma nova humanização.
2.3. O sindicalismo classista
A palavra massa, para Paul Tillich [Masse et Esprit, Études de philosophie de la masse ], transformou-se em slogan político e social. Expressão esta que conota superioridade e idolatria. Por isso, quando se deseja discutir seriamente o conceito massa é necessário definir seus contornos e esfriar um pouco a fervura do slogan .
Segundo Tillich, há dois conceitos de massa, um formal e outro material, o primeiro de ordem psicológica e sociológica e o segundo de ordem histórica e social . Em termos formais, a massa consiste numa associação de pessoas que, na associação, deixam de ser indivíduos. Sua individualidade se perde e ele se submete à coletividade. A pessoa se torna um átomo, desprovido de suas qualidades, seu movimento próprio, e se transforma em pura quantidade subordinada ao movimento da massa. Através da psicologia das massas pode-se ver como a alma perde sua forma individualizada uma vez que toma a forma da massa e como o indivíduo entra em contradição com ele próprio, já que é um átomo da massa ou um ser bem singularizado.
Tillich considera que no movimento psíquico da massa alguns elementos se separam e se isolam, adquirindo eficiências por eles próprios. Isto porque um indivíduo é o resultado de uma longa evolução interior e sua alma está ligada a milhares de liames à vida da alma em sua totalidade, que assim torna-se autônoma . Na massa, as forças de inibição, de reflexão e de matizações caducam. Tudo se transforma. Assim, podemos resumir essas transformações em duas leis. A lei da imediaticidade, segundo a qual a massa não reflete, mas é. Ela tem uma existência objetiva, não subjetiva como afirmou Hegel, ela é em si, não para si .
A massa não sabe porque ela faz aquilo que faz. Quando acede a ela própria é sempre através de certos indivíduos, um orador ou chefe. A massa é imediata, vive inteiramente o presente, sem ligações com o passado ou o futuro, sem lembranças ou reflexões. Suas motivações são irracionais. Mas para Tillich, a lei da imediaticidade explica o desabrochar dos instintos biológicos imediatos, que estavam inibidos. Também mostra a existência de um princípio espiritual imediato que se faz presente, que pode ser traduzido como o abandono ao instinto do momento em direção à disponibilidade da revelação espiritual do presente, revelação de uma espiritualidade subjetiva impura .
Ou seja, a irracionalidade das motivações pode dirigir ao irracional de baixo, à demência, ou ao irracional de cima, à novidade criadora. A outra lei da psicologia das massas, segundo Tillich, é a lei da amplificação. Se a vida espiritual do indivíduo perde suas inibições, se tal fato se repete em cada indivíduo presente, como num alternador, o vivido por um, suscita em outro experiência idêntica, porque a massa vivencia ela própria o ser massa. Essa lei nos leva a dois aspectos da vida da alma, o aspecto emocional e o aspecto intelectual.
Em todo movimento da massa podemos observar a força do entusiasmo, a amplificação das paixões, da coragem, que podem levar ao seu sacrifício e destruição. Do lado intelectual, a lei da amplificação age de forma mais discreta, porque o processo de reflexão não convém à massa por causa de sua complexidade . De certo ponto de vista, explica Tillich, o indivíduo está mais alerta que a massa, mas a massa pode se elevar bem acima das consciências subjetivas, com suas intuições mais simples, mas também maiores e também com sua clarividência disso, que prepara o espírito objetivo no momento presente . A amplificação pode levar ao monumental e ao heroísmo, mas também ao demoníaco e à destruição. E as intuições da massa podem se conformar ao espírito ou lhe ser refratário.
As leis da psicologia das massas são leis naturais, afirma Tillich. Elas são sempre válidas e necessárias onde uma pluralidade se encontra reunida. Elas têm valor para todos os estamentos sociais, para um grupo de marginais, assim como para uma assembléia de nobres. Com ironia superior, elas regem uma reunião de convencidos individualistas, assim como explicam o sentimento de superioridade existente na palavra massa, quando usado como slogan . Segundo Paul Tillich, no conceito material de massa, a essência de um grupo de homens determinado é ser essencialmente formado conforme a psicologia das massas .
Por isso, no sentido histórico do termo, a massa, quer sejam classes ou ordens, raças ou círculos, partilha do destino de ser excluído de toda formação espiritual individual. Vemos, então, que para Tillich a imediaticidade da massa faz com que desabroche nela instintos biológicos que estavam inibidos no indivíduo, o que traz à tona um princípio espiritual imediato: a disponibilidade à revelação espiritual do momento presente.
Essa imediaticidade é o que leva a massa ao irracional de baixo, à demência, ou ao irracional de cima, à novidade criadora. Ao lado da imediaticidade, os aspectos emocional e intelectual são amplificados. As forças do entusiasmo e da coragem são amplificadas de tal modo que podem levá-la ao sacrifício e destruição. Assim, a massa se eleva acima das consciências individuais com intuições simples, mas com clarividência disso. Este processo prepara o espírito objetivo no momento presente. Quando objetivamente a massa vive esse processo de espiritualização, nela, religião e cultura se misturam. A esse primeiro momento de evolução da massa Tillich chama de massa mística.
No contexto geral de uma análise do socialismo, não se pode deixar de levar em conta que a evolução histórica dá nascimento a diferentes tipos de massa, conforme o modelo de desenvolvimento das relações entre religião e cultura. O primeiro estado consiste em uma unidade onde os dois ainda não se distinguem. Uma segunda etapa é marcada pela autonomia da cultura: assim, ela se diferencia mais e mais da religião, a ponto de gerar a secularidade moderna. Mas esta ruptura e separação são catastróficas tanto para a cultura como para a religião. E serão então superadas pela etapa final da teonomia, caracterizada pela presença de conteúdo religioso em todas as formas autônomas da cultura .
Podemos facilmente reconhecer os elementos desse esquema na descrição que Tillich faz dos diferentes tipos de massa. A massa mística corresponde à religião de origem: é a fusão dos indivíduos numa única comunidade que engloba tudo. Vem em seguida a etapa da autonomia, onde os indivíduos se diferenciam cada vez mais da comunidade de origem, até tornarem-se completamente independentes e separados. Mas ainda é massa sem forma e cultura, que não se colocou em movimento e caminhou para um estado de individualização. Essa é o estado de massa técnica ou mecânica, característico da moderna sociedade industrializada .
A partir daí surge a perspectiva de uma etapa final onde a massa e a individualidade pessoal formarão uma nova união, uma síntese nova, chamada massa orgânica, que corresponderá ao ideal da teonomia. Logicamente, nem sempre se caminhará em direção a este ideal: mas o tempo histórico que orienta nessa direção é o da massa dinâmica . Dessa maneira, para Tillich, a massa dinâmica é sempre revolucionária, não unicamente no sentido político do termo – inclusive este é o sentido menos freqüente --, mas sempre em um sentido de fé espiritual e social. É necessário que ela seja revolucionária, porque o sentido de seu movimento é precisamente ir além do estado de massa e todas as formas que são responsáveis por este regulamento .
Assim, para Tillich o movimento da massa dinâmica parte da massa mecânica e é essencialmente um movimento de libertação: o movimento da massa dinâmica parte da massa mecânica, já existente ou em perigo de aparecer, e visa a supressão da massa, visa à massa orgânica, não importando que esse começo seja ou não atendido.
Vemos aqui que Tillich tem uma compreensão diferente daquela de Gramsci, que entende a vanguarda enquanto intelectualidade orgânica, mas não vê a massa em processo dinâmico que pode levar ao surgimento de uma massa orgânica. Sem desejar fazer um confronto entre os dois pensadores, tocamos apenas no ponto que metodologicamente nos interessa: a vanguarda não se limita ao militante ou intelectual, é um processo maior que tem na massa orgânica uma dupla ação, de liderança da sociedade e de transformação da situação-limite.
Uma tal visão abre perspectivas interessantes na análise e compreensão de diferentes situações históricas, em especial do momento vivido pelo Brasil no final dos anos 70. A questão da transformação da sociedade, a luta pela democratização e a formação do Partido dos Trabalhadores são compreendidos melhor através do caminho metodológico construído por Paul Tillich em seus escritos socialista. E como ele afirmou, todas as questões convergem para uma mesma resposta: a humanidade deve ter origem nas profundezas de um novo conteúdo, onde será superada a oposição entre massa e personalidade. Onde um novo conteúdo será produto da graça e do destino.
3. O SOCIALISMO ENQUANTO UTOPIA FUNDANTE
3.1. Um sonho em construção
As abordagens teóricas Paul Tillich e de Enrique Dussel abrem perspectivas para a compreensão do socialismo e da análise de diferentes situações históricas, em especial do momento vivido no final dos anos 70 no Brasil. A questão da transformação da sociedade, a luta pela democratização e a formação do Partido dos Trabalhadores podem ser compreendidos através do caminho metodológico construído por Paul Tillich. A análise dos processos de evolução da massa, enquanto massa mística, dinâmica e, por fim, orgânica, nos ajuda a entender o processo que levou à convocação feita em 24 de janeiro de 1979, no IX Congresso dos Trabalhadores Metalúrgicos de São Paulo, na cidade de Lins, quando sindicalistas aprovam a tese apresentada pelos metalúrgicos de Santo André, chamando todos os trabalhadores brasileiros a se unificarem na construção de seu partido, o Partido dos Trabalhadores. Esse documento ficará conhecido como a Tese de Santo André-Lins.
Em 16 de junho de 1979, o jornal Versus, formado por intelectuais socialistas, perguntou: Que fenômeno é este, o do tal Partido dos Trabalhadores? E o próprio jornal apresentou aos seus leitores uma análise daquele partido que começava a surgir.
Antes que nada ele parte de um elemento, o desenvolvimento econômico e social dos últimos vinte anos, que geraram duas novas classes, uma classe operária industrial, altamente concentrada nos grandes centros urbanos e uma classe média assalariada moderna. Desde 1978, tanto os operários como esta classe média estão num processo de mobilização.
Essa combinação de fatores, o surgimento de estratos novos na sociedade e o conjuntural – um ano de mobilização – levam ao surgimento (ou condicionam o surgimento) de fenômenos novos na sociedade.
(...) A idéia do PT surge então de quatro fatores: (1) de uma nova realidade social; (2) das mobilizações e lutas que estão se dando há mais de um ano e que geram uma nova experiência, não somente sindical, mas democráticas e política; (3) a não existência de alternativas para esta nova vanguarda, que necessita expressar-se politicamente; e (4) de que esta necessidade se expressou através de algumas direções sindicais (...), que cumpriu um papel mais ideológico.
De toda a maneira, o Partido dos Trabalhadores não estava nos planos do governo. Sua intenção é de que todos os dirigentes sindicais classistas e autênticos, assim com o ativismo, estejam controlados pelo PTB ou o MDB. Esta é a única garantia para a burguesia, enquadrá-los e vencer o movimento de massas através de uma saída democrática controlada, entrilhando seu descontentamento para a luta estritamente parlamentar.
Na verdade a construção do PT passa por grandes dificuldades. Como os dirigentes sindicais chegaram à questão do PT através do classismo, como mediação entre a questão democrática e política, por uma necessidade, e não exatamente por um salto de consciência, o Partido dos Trabalhadores passa a ser de difícil concretização. Os dirigentes sindicais estão procurando um partido, algo que possa cumprir uma necessidade que têm. Como antes o projeto do PTB estava distante, eles começaram a baralhar a hipótese do PT, mas na medida em que o PTB venha a concretizar-se, aumenta a possibilidade de que os classistas aceitem esta alternativa. Já que á mais fácil entrar numa partido do que construir um.
Todo o processo novo que se dá a partir de mais de 1978 é muito rico porque combina e interliga muitas coisas, como o fato de que setores do movimento de massas se mobilizem a partir do sindical, mas também combinam o democrático e o político e geram uma importante vanguarda, mas se dá de forma desigual e combinada, mais ainda, não é um fenômeno ideológico, mas concreto.
Assim, diríamos que se dão, misturados, três níveis de consciência. Um primeiro mais amplo, que é o sindical-classista e que se traduz no surgimento de uma nova vanguarda classista, em sindicatos autênticos, chapas classistas de oposição, vencedoras, etc.
O segundo nível de consciência é o classista-político, o mais heterogêneo, que se traduz na compreensão empírica, vacilante e não claramente definida ainda, da necessidade de um partido sem patrões, que expresse as necessidades mais gerais da classe trabalhadora. Isto é laborismo.
E o terceiro nível de consciência seria o da consciência revolucionária, daqueles que entendem a necessidade de um partido socialista para a transformação da sociedade.
Sem entender que existem níveis diferentes de consciência e desigualdades não entenderemos o processo vivido pelo PT. A construção do Partido dos Trabalhadores depende dos próprios trabalhadores. A participação dos socialistas nesta construção pode ser fundamental, mas ainda assim é secundária. De todas as maneiras, caso se concretize o PT será talvez o maior salto que a classe operária brasileira já deu no processo de consolidação de sua consciência-para-si. E, um rombo efetivo nos planos de Figueiredo. Dezesseis de junho de mil novecentos e setenta e nove. Anno domini.
Estamos em março de 1979. O regime militar esta chegando ao fim semeando prisões, fome e morte. O autoritarismo se realiza como fetiche, já que a ditadura se ergue como critério de verdade, destruindo vidas humanas e a dignidade de milhões de brasileiros. Militantes, socialistas e sindicalistas levantam um princípio universal: o dever da construção de alternativas políticas próprias aos excluídos. Princípio este que é objetiva e subjetivamente negado pelo regime militar e pelo arbítrio. No ABC paulista a abertura lenta e gradual proposta pelo governo militar faz água.
Neste mês de março, 180 mil metalúrgicos entram em greve quando mal tinha chegado à presidência o general Figueiredo. O governo decreta a intervenção nos sindicatos e destitui seus dirigentes. Algumas semanas depois, volta atrás e revoga a intervenção. Sete meses depois, No dia 13 de outubro de 1979, 130 sindicalistas e militantes que representam seis estados da Federação, lançam o Movimento pelo Partido dos Trabalhadores, no salão de festas do restaurante São Judas Tadeu, em São Bernardo do Campo. Aprovam uma Declaração Política e uma Plataforma Política, que definem as reivindicações que o Movimento levantaria de imediato. Aprovam ainda as Normas transitórias de funcionamento e lançam uma Nota contra a reforma partidária proposta pelo governo. Elegem também uma Comissão Nacional Provisória, composta por 17 pessoas, para dirigir o Movimento até a fundação do PT.
No correr do ano seguinte, os sindicalistas, socialistas e cristãos de esquerda fundam o Partido dos Trabalhadores, Assim, no dia 10 de fevereiro de 1980, com a presença de 1200 pessoas, entre os quais intelectuais como Mário Pedroso, Sérgio Buarque de Holanda e Lélia Abramo, o Partido dos Trabalhadores realiza no Colégio Sion, em São Paulo, seu ato de fundação. Por aclamação é aprovado o Manifesto do partido, que é publicado no Diário Oficial da União de 21 de outubro do mesmo ano.
Meses depois, em reunião nacional de fundação do PT, que acontece no dia 1º de junho de 1980, no Instituto Sedes Sapientiae, em São Paulo, são aprovados o Programa de Ação e o Estatuto do Partido. Além de defender a liberdade de organização partidária e sindical, e pronunciar-se a favor de melhores condições de vida, o Plano de Ação defendeu também a reforma agrária, a independência nacional e deu seu apoio às lutas das mulheres, negros e índios.
No encontro realizado na Assembléia Legislativa de São Paulo, nos dias 8 e 9 de agosto de 1981, o PT “assume como bandeira central a luta contra o desemprego” e define que realizará “na segunda quinzena de setembro um Dia Nacional de Luta contra o Desemprego, apoiando todas as iniciativas do movimento popular no mesmo sentido”. Relacionando os problemas nacionais com a questão eleitoral, o PT declara que “luta por eleições livres e diretas em 1982 e 1984 e combate a fixação de regras que desvirtuem o caráter democrático do voto”.
3.2. Carta de Brasília
É dentro desse contexto que devemos entender as propostas de socialismo que se fazem presentes na formação do Partido dos Trabalhadores. Assim, no dia 27 de setembro de 1981, em Brasília, o PT realiza sua primeira Convenção oficial. Ele já estava legalizado em 16 estados. Em seu discurso, Lula, define o PT como partido socialista, é tal declaração é aprovada como documento básico do Partido dos Trabalhadores. “Há muita gente que pergunta: qual é a ideologia do PT. O que pensa o Pt sobre a sociedade futura? (...) Nós do PT sabemos que o mundo caminha para o socialismo. Os trabalhadores que tomaram a iniciativa histórica de propor a criação do PT já sabiam disto muito antes de terem sequer a idéia da necessidade do Partido. (...) O socialismo que nós queremos irá se definindo nas lutas do dia-a-dia, do mesmo modo como estamos construindo o PT. O socialismo que nós queremos terá que ser a emancipação dos trabalhadores. E a libertação dos trabalhadores será obra dos próprios trabalhadores”. Numa definição o bastante ampla para não entrar em choque com stalinistas, trotskistas e marxistas dos mais diferentes matizes, Lula prefere optar pela fórmula “o socialismo que nós queremos irá se definido nas lutas do dia-a-dia...”.
É interessante ver que, em 1980, Paul Singer afirmava que o socialismo que decorre das lutas atuais dos trabalhadores dos setores economicamente mais avançados constitui uma reformulação profunda do que se concebia como socialismo há apenas algumas décadas. A reformulação mais drástica é provavelmente a rejeição da idéia de que o socialismo deve ser implementado a partir da conquista do poder político, o que implicava a noção de que o socialismo seria, em essência, realizado por um poder político que a tanto se propusesse. A lógica do raciocínio se baseava no pressuposto de que o socialismo resultaria da socialização dos meios de produção, entendida como abolição da propriedade privada dos mesmos.
Ora, hoje, após diversas tentativas fracassadas de chegar ao socialismo desta maneira, sabemos que socializar só pode significar submeter os meios de produção ao controle coletivo do conjunto dos trabalhadores. Como vimos, porém, a natureza das forças produtivas atualmente disponíveis faz com que o controle imediato da produção social seja exercida por uma camada de técnicos e administradores – e enquanto isso tiver de ser assim a essência da socialização não consiste em subordinar formalmente esta camada a um poder dito proletário ou socialista, mas em submetê-las de fato à hegemonia da classe trabalhadora. Mas isso significa que, em lugar de conquistar o poder político, o que os socialistas têm de fazer é dividi-lo de tal modo que as decisões finais sejam tomadas, direta ou indiretamente, pela classe trabalhadora. Em outras palavras, a burguesia dividiu o poder político em três ramos – executivo, legislativo e judiciário – para impor sua hegemonia, o proletariado não pode reunifica-lo, a pretexto de conquista, sem acabar por ser dominado pelos que de fato o exercem.
(...)
Isso significa também que o âmbito da luta pelo socialismo é muito maior que o plano político convencional. Não é só o poder do Estado que tem de ser transformado, mas todo9 poder exercido autoritariamente: o do patrão na empresa, do professor na escola, do oficial no Exército, do padre na igreja, do dirigente no sindicato ou no partido e, por fim mas não por último, do pai na família. De todos estes, provavelmente a soberania do Estado e a autocracia patronal ou gerencial na empresa são as formas fundamentais do poder, cuja transformação condicional as demais. Mas nem por isso há qualquer razão para restringir a prática de libertação a estas duas instituições. A luta pelo socialismo requer a mobilização de toda a população e, portanto, as lutas antiautoritárias têm de ser suscitadas em todas as instituições no pressuposto, confirmado pela experiência, que as práticas de libertação tendem, em geral, a se reforçar mutuamente, na medida em que a legitimidade de todas é reconhecida, ao passo que a tentativa de se considerar uma luta específica como prioritária e contendo em si a solução das demais – “uma vez conquistado o poder e eliminada a propriedade privada dos meios de produção, tudo o mais se resolver sem atrito nem demora” -- só tende a dividir os movimentos de libertação e sectarizá-los.
O socialismo só será alcançado após uma extensa e vitoriosa prática de libertação, que abra caminho, ao mesmo tempo, ao desenvolvimento de novas forças produtivas e à socialização completa do trabalho intelectual.
3.3. Terra, trabalho e liberdade
Em seu 2º Encontro Nacional, realizado no Instituto Sedes Sapientiae, em São Paulo, nos dias 27 e 28 de março de 1982, o PT aprova Plataforma Eleitoral Nacional e afirma:
A campanha eleitoral do PT é muito diferente de todas as que nós, trabalhadores, participamos até hoje. É diferente porque temos o nosso Partido e escolhemos os nossos próprios candidatos; porque o PT combate a compra do voto, o cabo eleitoral e as promessas demagógicas. A campanha eleitoral do PT é diferente porque é, antes de tudo, uma grande campanha de mobilização e organização dos trabalhadores, a partir das principais reivindicações do movimento popular. A campanha eleitoral do PT é uma campanha de luta, quer dizer, uma campanha que se compromete com todas as lutas dos trabalhadores. Assumindo as principais reivindicações dos trabalhadores da cidade e do campo, lutamos para acabar com a fome e o desemprego, por melhores salários e terra para plantar e para morar, para que nossos direitos sejam respeitados no campo e na cidade, para sair de baixo da operação dos tubarões.
Numa linguagem direta e popular, o PT nesta plataforma para as eleições de 1982 mostra a triste realidade daqueles que se equilibram sobre baixos salários ou vivem a experiência desesperadora do desemprego.
Cada vez que você sai de casa para fazer compras, você se assusta com a alta dos preços. Qualquer dia, o seu salário não vai dar nem para um mísero quilo de feijão. Não é para menos, porque os salários não aumentam a cada dia, como aumentam os preços.
E se você é um camponês, a dureza é a mesma. Você se mata na plantação e, quando vai vender o que produziu, não dá nem para pagar o que gastou. Isso, se o grileiro já não lhe tomou a terra e você, sem achar trabalho no campo, não está agora aos trancos e barrancos, chegando à cidade para começar tudo de novo.
Pior ainda se você é um dos tantos desempregados deste país. Você deixou muito do seu suor produzindo para o patrão e, um belo dia, ele mandou você embora. Agora, sem salário, você não tem como garantir a comida na sua casa.
Para enfrentar esta situação, o PT faz algumas propostas: um salário mínimo unificado, que dê para garantir ao trabalhador e à trabalhadora uma vida decente, e que seja reajustado a cada três meses, na mesma medida da inflação; estabilidade no emprego; salário-desemprego; criação de uma cesta básica de alimentos a preço fixo, que o Estado – e não os grandes atacadistas – se encarregaria de comprar no campo e vender na cidade; redução de jornada de trabalho para 40 hora semanais, sem redução de salário.
3.4. Somos todos iguais
O Brasil que queremos não é apenas o povo comendo, morando, tendo saúde, vestindo e se educando. A vida que desejamos tem que ser baseada, sobretudo numa relação profundamente humana e fraterna, igualitária, entre as pessoas, sem nenhum tipo de discriminação.
E nesta questão a situação no Brasil é grave. A mulher é tratada como ser de segunda categoria. A ela cabem os piores empregos e os menores salários, além de estar submetida a dupla jornada de trabalho, pois acumula as tarefas de casa. A todo momento, é subjugada e humilhada, oprimida, não só como trabalhadora, mas também como mulher.
O preconceito de cor é real. Os negros não têm os mesmos direitos que os brancos e, antes de mais nada, são tidos como suspeitos e marginais. Os índios são tratados como débeis mentais, massacrados física e culturalmente, não sendo respeitadas nem mesmo as suas reservas de terras. Os homossexuais são humilhados e discriminados, tratados como doentes ou caso de polícia.
Exigimos igualdade nas leis que regem a família, o trabalho e a sociedade; o direito ao trabalho, à profissionalização e extensão dos direitos trabalhistas a todas as trabalhadoras, a exemplo das empregadas domésticas, e respeito ao direito de salário igual para trabalho igual.
3.5. O socialismo é a solução
Desde sua fundação, o PT afirmou o compromisso com a construção de uma sociedade sem explorados. Isto é, o seu compromisso com a construção de um Brasil socialista. E isto porque, tendo nascido das lutas dos trabalhadores, o PT desde o início percebeu que os meios de produção deveriam ser de propriedade social, servindo não aos interesses individuais de um ou de outro proprietário. Queremos uma sociedade em que os homens sejam valorizados e onde nenhum homem possa ter o direito de explorar o trabalho de outro. Uma sociedade em que cada um e todos possam ter iguais oportunidades para realizar suas potencialidades e aspirações.
Essas são as bases matriciais da formação do Partido dos Trabalhadores, onde o socialismo se colocou como utopia fundante. Até aqui chegamos. O que nos reserva o futuro e onde se situará a mito socialista na era Lula, esta já é outra questão.
Jorge Pinheiro, Toulouse, 2003.
SOCIALISME ET RELIGION dans le processus de fondation du PARTI DES TRAVAILLEURS au BRESIL.LECTURE A PARTIR DE PAUL TILLICH
Par JORGE PINHEIRO
Introdução
Paul Tillich em A Decisão Socialista [Introdução: As duas raízes do pensamento político, Potsdam 1933, Gesammelte Werke, II, pp. 219-365] afirma que o socialismo é um movimento de oposição, de mão dupla, um movimento de oposição à sociedade burguesa, mas enquanto mediação, uniu-se à sociedade burguesa na oposição às formas feudais e patriarcais de sociedade. Entender esta raiz do socialismo, ajudaria a entender as raízes do pensamento político que lhe deu origem. Tillich parte de uma teologia política onde seu referencial primeiro é o ser. Nesse sentido, podemos dizer que faz uma fenomenologia política quando analisa questões como o ser, a origem do pensamento político, enquanto mito, e a partir daí procura trazer à tona os elementos não reflexivos do pensamento político conservador. E é a partir da análise do pensamento conservador que Tillich vai explicar o surgimento da democracia e do socialismo.
Para Tillich, a distância que separa ser e consciência é necessária para que o ser se eleve à consciência. A consciência supõe não somente uma ligação ao ser, mas também uma distancia que permita reflexão. Assim, o que é abalado em sua ligação original com um grupo ou com uma classe é chamado a dar consciência a outra classe que não é a sua. Marx e Lênin são o exemplo mais evidente disto. Eles mostram que a relação entre a situação social e o pensamento político deve se elevar da esfera biográfica para aquela das relações funcionais. A palavra princípio serve para caracterizar de maneira global os grupos políticos.
O pensamento tem como tarefa extrair uma multiplicidade de fenômenos que constitui a característica comum a todos os indivíduos. Normalmente, se cumpre esta tarefa com ajuda do conceito de essência. Desde Platão, a relação entre essência e o fenômeno domina no Ocidente a teoria do conhecimento. Porém a lógica da essência não é suficiente para explicar as realidades históricas. A essência de um fenômeno histórico é uma abstração vazia, de onde se expulsou a força viva de história. Por isso, não se pode entender o socialismo se não experimentar a exigência de sua justiça como uma exigência do incondicionado. Quem não é confrontado pelo socialismo não pode falar do socialismo, a não ser enquanto expressão que vem do exterior . Não pode falar dele em verdade, porque é contrário às tendências políticas que defende. Aí está o nó da origem.
1. AS MATRIZES DA FORMAÇÃO DO PT
1.1. O marxismo: ortodoxia e heterodoxia
Em artigo publicado em Das neue Deutschland , em 1919, Paul Tillich afirma que o socialismo é o produto da evolução espiritual e econômica, que foi lentamente preparado e que se impõe com a Renascença, a Reforma e com o surgimento do capitalismo. O socialismo surge em oposição à cultura autoritária e unitária da Idade Média e sedimenta suas bases nas criações culturais dos últimos séculos.
O socialismo só pode ser compreendido a partir desta evolução e sua permanência está ligada diretamente a este desenvolvimento. Deve-se reafirmar, porém, que é do interior do cristianismo que brota o socialismo e que um socialismo sem estes pressupostos é uma quimera, e que aqueles que defendem o socialismo devem defender também os princípios sobre os quais ele repousa . A organização espiritual e econômica da Idade Média, afirma Tillich, estava fundada sobre um sistema de centralização da autoridade que, ancorado no sobrenatural, associava a natureza e o supranatural numa unidade poderosa , à qual os povos e os espíritos estavam sujeitos.
Mas a partir do Iluminismo, explica Tillich, no domínio espiritual, político, econômico, nada pode ficar de positivo que não seja pensado, confrontado com a consciência pensante, medido e negado. Os sistemas de fé, as formas de Estado, as definições econômicas sofrem o assalto da autonomia, que não tem nenhum respeito pelas autoridades humanas e divinas . Lamenta-se a perda do sistema de autoridade ou festeja-se tal acontecimento como um passo em direção à maturidade cultural. De todas as maneiras, há o reconhecimento de que a vida cultural não pode ser pensada sem autonomia e que o socialismo está presente em todos os lugares. Líderes e camponeses tem o mesmo sentimento, conquistar a liberdade das mãos do autoritarismo irracional, seja ele imanente ou transcendente. Este é o primeiro fato que o cristianismo deve levar em conta , conclui Tillich.
Do lado positivo, explica Tillich, a autonomia significa o reinado da razão . Pela primeira vez, depois de um milênio e meio, a razão humana não vê limites para seu poder. Através da análise ela penetra as profundezas da vida cultural e social, simultaneamente, e através da síntese dos elementos descobertos apresenta um sistema novo, racional. Depois de séculos de arbítrio, os homens são possuídos por uma vontade de dar forma ao mundo de maneira racional . E a vida econômica também deve ser formulada racionalmente. Não é o prazer de certos indivíduos ou povos que deve fazer a lei, mas é a humanidade inteira, que é sujeito e objeto dos processos econômicos, quem deve fazê-lo a partir de critérios racionais .
A mesma autonomia que substituiu a autoridade, a partir da razão precisa construir um mundo sem arbítrio. Eis o segundo fato que o cristianismo deve levar em conta . Mas, explica Tillich, sem dúvida foi Marx quem introduziu o pensamento histórico objetivo do idealismo alemão no socialismo, ao dizer que a razão precisa ser separada da decisão humana e colocada ao nível das necessidades objetivas. O processo dialético é racional e a fé nele é uma fé na razão: uma fé que adquire uma força enorme graças à sua amarração metafísica objetiva e que se tornaria o dogma fundamental de milhões de pessoas .
Foi o processo da própria história que fez o mundo conformar-se à razão e levou este combate a tornar-se vitorioso. E foi essa vitória que deu cara ao mundo que conhecemos como moderno. Para Tillich, a fé na razão está fundamentada sobre os resultados conquistados pela ciência da natureza. Mas atrás da ciência da natureza veio a cultura moderna. Preparada de várias maneiras a partir do fim da Idade Média, ele surge com uma força irresistível na Renascença e conduziu a uma afirmação alegre deste mundo, que durante muito tempo foi negado, desdenhado e rebaixado por um outro onírico e místico .
Os outros mundos empalideceram diante da nova astronomia, diante da validade universal das leis da natureza, diante da beleza redescoberta do real na arte, diante da consciência de unidade do finito e do infinito na filosofia da natureza . É assim que a imanência ressoa no humanismo e na filosofia das Luzes, com Goethe e no idealismo alemão, da mesma maneira que o socialismo se une à consciência da autonomia e à fé do poder formador da razão na construção de um sentimento unitário da vida e do mundo. Este é o terceiro fato que o cristianismo deve levar em conta , afirma Tillich. Se o socialismo é, nesse sentido, uma herança da cultura universal, ele tem, no entanto, uma originalidade que não se restringe aos conceitos, mas à experiência vivida.
O conceito de humanidade, diz Tillich, que manifesta a vitória da idéia de tolerância, não teve na evolução da burguesia mais que uma realização acidental. A consciência da humanidade é neutralizada pela consciência de classe, educação e de dependência nacional . A humanidade se colocou antes de tudo no campo das confissões, sob formas absolutamente contrárias a idéia de uma transformação racional do mundo. É somente pela pressão sobre os trabalhadores nos primeiros decênios do moderno capitalismo, explica Tillich, que nasceu uma consciência solidária, no coração do qual está presente o sentimento universal de humanidade, que se opõe àquele que vê no homem um meio e não um fim .
O combate contra o feudalismo, o capitalismo, o nacionalismo e o confessionalismo constitui a expressão negativa da consciência incondicional de humanidade, que derruba barreiras e reconhece o homem em cada homem. Este é o quarto fato que o cristianismo deve levar em conta, conclui Tillich. O que fica claro em Tillich é que autonomia e socialismo são processos históricos que se complementam, mas que não são idênticos. O processo de autonomia vivido pela sociedade européia no período que se abre a partir do Iluminismo e que põe em xeque a tradição e o autoritarismo, servirá de base para a ação socialista. Autonomia é o momento supremo da razão e da imanência, e é a partir daí que o socialismo vai construir um sentimento unitário da vida e do mundo, embora sua originalidade não se limite aos conceitos, mas à experiência vivida.
A luta dos trabalhadores contra a alienação e exclusão social vai gerar consciência solidária e sentimento universal de humanidade. Mas, ainda assim, ao se limitar ao campo da autonomia, sem uma atitude que permita à incondicionalidade apoderar-se da própria autonomia, o socialismo deixa aberto o caminho para o autoritarismo e o arbítrio.
Quando olhamos o socialismo latino-americano a partir da crítica ao eurocentrismo, podemos dizer que hoje se repete o que sucedeu há quinhentos anos com a conquista da América: o homem europeu, e por extensão estadunidense, constitui o sentido do ser latino-americano e do brasileiro, encontrado a partir da totalidade de sentido européia. Na verdade, o habitante da América índia, negra e mestiça não foi descoberto como outro, mas como o mesmo já conhecido e, em seguida negado, ocultado e transformado em objeto do ego moderno.
O ponto fundamental dessa crítica é que a Europa, num primeiro momento, e Estados Unidos depois descobriram um novo espaço geográfico, compreendeu-o como horizonte fundamental do ser do centro, campo de batalha no qual exerce uma práxis de dominação. Tal formulação desconstrói o sistema ontológico da dominação, a partir da exterioridade do outro como sujeito ético, como rosto e como corporeidade, que grita e reclama justiça. Os excluídos do sistema cultural ocidental devem ser tomados como centro de um novo modelo de racionalidade, ético-crítica.
Diante das massas crescentes de deserdados que tomam consciência de sua negação originária como subjetividade excluída ou objetivada dentro do sistema dominante, os poderosos utilizam a guerra e, se admitem o diálogo, é no interior de sua comunidade de comunicação hegemônica, que não garante a reprodução e o desenvolvimento da vida humana. A teologia deve pensar a realidade mundial além da fronteira do centro, que distingue entre populações dotadas de direitos e poderes e populações excluídas e utilizadas como instrumentos manipuláveis.
Se entendermos esse processo de construção da dominação, podemos analisar o processo de gestação do Partido dos Trabalhadores a partir da exposição que Tillich faz acerca da passagem da heteronomia à autonomia e, posteriormente, à teonomia, enquanto ciclos que procuram romper a lógica de ferro da dominação. Para ele, os movimentos de massa são encontrados em movimentos religiosos, nos movimentos políticos e raciais de imigrantes e nos movimentos econômicos do socialismo. Embora esses movimentos possam ser encontrados em diversas épocas, também o são em diferentes esferas da cultura. Mas sempre são movimentos de libertação: já que é parteira de escravos, de povos excluídos, ou de escravos livres, trabalhadores assalariados, que a industrialização levou a uma dinâmica de massa que transbordou a história.
2.2. A presença cristã
Mas o exemplo cristão não chega só de além-fronteiras. No Brasil ele é contundente. E Versus explica porque.
Hoje são quase 50 mil Comunidades Eclesiais de Base, organizando cerca de um milhão e quinhentas mil pessoas, no Brasil. Elas identificam o pecado-raiz de toda a opressão: “...esse grande pecado é agora social e se chama sistema capitalista”, concluiu o III Encontro Intereclesial de Comunidades de Base, em julho de 78 na Paraíba. Já não se contam mais nos dedos as Comissões Diocesanas de Justiça e Paz. A Igreja Católica foi, talvez, o primeiro setor organizado, com peso efetivo na sociedade brasileira, a empunhar a bandeira de luta pelos direitos humanos. Ligada às parcelas mais exploradas do povo, sofrendo a perda de padres e freiras perseguidos e mortos, a Igreja se organizou para combater as ameaças à Justiça e à Paz. Deixa, enfim, o regaço dos poderosos, não sem contradições e conflitos dentro de sua própria estrutura.
E para entender os caminhos da catolicidade, o jornal entrevistou D. Adriano Hipólito, bispo de Nova Iguaçu. Mas, explica Versus, qualquer que seja o resultado da reunião, a luta entre as tendências conservadoras da Igreja e os setores progressistas vai continuar. Ela não é um fenômeno apenas superestrutural, ela reflete um processo mais amplo de lutas sociais, e faz parte da movimentação política das massas latino-americanas, hoje num processo irreversível de construção de sua própria história.
Nova Iguaçu era àquela altura, modelo brasileiro de cidade dos pobres e excluídos:
(...) oitavo município mais populoso do país, ali faltam esgotos, escolas, hospitais, transportes, segurança pessoal (reina o esquadrão da morte). Região de operários, funcionários mal remunerados, comerciários, subempregados, que já não podem esperar soluções senão de si próprios.
Diante da desconfiança de muitos socialistas ao engajamento da igreja na luta pelos direitos dos oprimidos, por causa de sua tradição heteronômica, Versus argumenta que
se os homens são aquilo que fazem, a Igreja está sendo aquilo que seus sacerdotes têm praticado. E essa prática de discussão e organização das bases de nossa sociedade nós precisamos compreender e avaliar.
Assim, qual o espírito que orienta o atual trabalho comunitário da Igreja Católica no Brasil? E dom Adriano Hipólito responde:
A Igreja, na sua essência, é comunidade de fé, de esperança e de amor. Sua maior eficiência, fermentadora e renovadora da comunidade humana, sempre dependeu de seu comportamento e de sua atuação com comunidades. Sem dimensão comunitária a Igreja não é Igreja. Sem abertura para os problemas da comunidade/sociedade, a Igreja não está em condições de realizar sua missão, ser continuação da ação libertadora de Jesus Cristo, ser sinal de esperança para o homem angustiado e sofredor.
Mas, Versus quer saber mais: o que são as CEBs, como funcionam, quem as integra? E Dom Hipólito responde:
Comunidade: as pessoas se aproximam livremente, se sentem responsáveis, descobrem e atuam nos mais diversos elementos de interesse comum. Eclesial: o ponto de partida e de chegada, os elementos formadores e aglutinadores, os métodos de ação, etc, são os mesmos da Igreja. Base: a comunidade de base tem como princípio fundamental o relacionamento primário das pessoas: pessoas que se conhecem, que se estimam, se complementam, se ajudam mutuamente. Todos atuamos em nível de base. A CEB, embora não seja constituída para fazer política, tem de se preocupar com os problemas políticos e tem parte ativa no processo político. Tem a preocupação de integrar as pessoas da base no processo social, como direito/dever da pessoa humana, e de levá-la à participação consciente e crítica.
Como jornal socialista, envolvido com a organização dos trabalhadores ao nível sindical e político, Versus quer conhecer o pensamento de seu aliado cristão. E Dom Hipólito esclarece sua posição.
Para participar do processo social, o Povo precisa de instrumentos válidos e eficientes. Entre esses instrumentos estão, por exemplo, os sindicatos e os partidos políticos. Os sindicatos devem ser órgãos de participação eficiente na defesa dos direitos dos seus sindicalizados. Estão a serviço dos trabalhadores como comunidade de trabalho que constrói a Pátria, e não a serviço de grupos do poder, de demagogos e pelegos. O Estado onipotente conseguiu, também no Brasil, corromper a filosofia dos sindicatos, reduzindo-os a instituições de beneficência e lazer.
Um partido trabalhista que corresponde realmente a uma grande corrente do pensamento popular, na classe dos trabalhadores será, mais cedo, ou mais tarde, uma necessidade imperiosa. (...) Mas um Partido Trabalhista que esteja entregue a liderança dos trabalhadores, e não seja manipulado por uma elite burguesa que deseja apenas conquistar o poder.
E já no final da entrevista, Versus faz uma pergunta que traduz não apenas reflexão sociológica, mas também teológica, com profundas implicações políticas para o momento.
Como o senhor vê o possível relacionamento entre Cristianismo e Socialismo diante das necessidades dos trabalhadores?
Sem disfarçar as divergências em pontos fundamentais, podemos admitir uma luta comum por uma causa comum: a justiça social. Quero crer que sem o Cristianismo como pano de fundo, o Socialismo não se explica suficientemente. Muitos elementos do Socialismo são de fato cristãos.
Para dom Hipólito, assim como para Versus, a história da Igreja é passível de muitas críticas. Muitas vezes, suas opções e alianças com os grupos de poder fizeram com que se afastasse e dificultasse seu relacionamento com parte da população excluída de bens e possibilidades.
Tal situação facilitou e potencializou a pregação do ateísmo e do materialismo. Mas, como explica Tillich, não podemos dizer que o ateísmo materialista seja um fenômeno constitutivo do socialismo. Para ele, é uma herança da cultura burguesa, crítica e cética. Essa herança foi adotada pelo socialismo sob a crença de que ajudaria a extirpar a idéia de opressão e abriria o caminho para a construção de um novo mundo, mais justo e digno.
Assim, embora haja razões históricas para criticar a Igreja, o socialismo erra quando nega a existência da base solidária e comunitária do ideal cristão. Versus evita esse erro, quando esclarece aos seus leitores de que se os homens são aquilo que fazem, a Igreja está sendo aquilo que seus sacerdotes têm praticado. E essa prática de discussão e organização das bases de nossa sociedade nós precisamos compreender e avaliar.
Podemos fazer uma leitura deste cristianismo a partir do pensamento de Emmanuel Lévinas. Lévinas reclama prioridade para a vítima na figura dos excluídos. O não matarás, princípio do humanismo de Lévinas, é uma marca constante nos escritos de Dussel. Lévinas é o judeu embebido no pensamento europeu. Mas a cultura européia não tem lugar para o outro, para o judeu oriental Lévinas. De maneira semelhante, Dussel é o excluído da América latina, que faz a critica teológica do pensamento europeu, que não consegue ver o outro.
Há aqui uma hermenêutica que se fundamenta na razão da libertação enquanto imperativo ético: quando se vive num mundo que não permite a produção e reprodução de nossas vidas latino-americanas, em que sentido nos relacionamos com esse mundo? Torna-se evidente que Dussel pretende uma teologia que parta de um retorno à realidade da América Latina. Para ele, a teologia na América Latina nasce da reflexão sobre a realidade econômica, cultural e política do continente. Dussel mostra a necessidade da ruptura com o pensamento latino-americano que pensava a cultura, economia e política latino-americanas a partir da teologia européia. A situação latino-americana é diferente da situação européia. Os caminhos que devem ser percorridos divergem, segundo Dussel, dos caminhos dos países do centro.
Assim, Dussel constrói uma teologia que parte da situação do excluído, e neste sentido o horizonte dos latino-americanos diverge da problemática européia, onde a centralidade do pensamento repousa sobre a dominação. Para ele, por exemplo, o Discurso do Método de Descartes é o manifesto do homem reduzido a ser um sujeito que pensa, e essa metafísica do sujeito, é a “expressão temática da experiência fática do domínio imperial europeu sobre as colônias”, que se concretiza não somente como vontade universal do domínio, mas historicamente como dialética de dominação versus dominado. Assim, afirma, “se existe vontade de poder, existirá alguém que deve sofrer o seu poderio”.
A teologia de Dussel tem por base uma nova história, pois, as histórias universais são européias, e os latino-americanos não podem se ver nessas histórias européias, porque o outro é invisível para elas. Para Dussel, os que se libertam conduzem a história para o seu futuro e constituem o momento essencial da história. Contraposto ao destino europeu e norte-americano, é reservado aos excluídos um destino que criar caminhos para a realização de uma humanização universal. Por isso, os excluídos encontram-se em posição privilegiada. São os excluídos que têm oportunidade de descobrir a situação de opressão, compreendendo quem é o dominador; aquele que crê tudo compreender e que na realidade nada compreende.
Ora, quando a comissão nacional provisória do Partido dos Trabalhadores fez o lançamento público no 1º de Maio de 1979 de sua Carta de Princípios, afirmou que “os males profundos que se abatem sobre a sociedade brasileira não poderão ser superados senão por uma participação decisiva dos trabalhadores na vida da nação. O instrumento capaz de propiciar essa participação é o Partido dos Trabalhadores”. Podemos entender essa declaração a partir da análise de Dussel, quando diz que os excluídos ao descobrir a situação de opressão cria os caminhos para uma nova humanização.
2.3. O sindicalismo classista
A palavra massa, para Paul Tillich [Masse et Esprit, Études de philosophie de la masse ], transformou-se em slogan político e social. Expressão esta que conota superioridade e idolatria. Por isso, quando se deseja discutir seriamente o conceito massa é necessário definir seus contornos e esfriar um pouco a fervura do slogan .
Segundo Tillich, há dois conceitos de massa, um formal e outro material, o primeiro de ordem psicológica e sociológica e o segundo de ordem histórica e social . Em termos formais, a massa consiste numa associação de pessoas que, na associação, deixam de ser indivíduos. Sua individualidade se perde e ele se submete à coletividade. A pessoa se torna um átomo, desprovido de suas qualidades, seu movimento próprio, e se transforma em pura quantidade subordinada ao movimento da massa. Através da psicologia das massas pode-se ver como a alma perde sua forma individualizada uma vez que toma a forma da massa e como o indivíduo entra em contradição com ele próprio, já que é um átomo da massa ou um ser bem singularizado.
Tillich considera que no movimento psíquico da massa alguns elementos se separam e se isolam, adquirindo eficiências por eles próprios. Isto porque um indivíduo é o resultado de uma longa evolução interior e sua alma está ligada a milhares de liames à vida da alma em sua totalidade, que assim torna-se autônoma . Na massa, as forças de inibição, de reflexão e de matizações caducam. Tudo se transforma. Assim, podemos resumir essas transformações em duas leis. A lei da imediaticidade, segundo a qual a massa não reflete, mas é. Ela tem uma existência objetiva, não subjetiva como afirmou Hegel, ela é em si, não para si .
A massa não sabe porque ela faz aquilo que faz. Quando acede a ela própria é sempre através de certos indivíduos, um orador ou chefe. A massa é imediata, vive inteiramente o presente, sem ligações com o passado ou o futuro, sem lembranças ou reflexões. Suas motivações são irracionais. Mas para Tillich, a lei da imediaticidade explica o desabrochar dos instintos biológicos imediatos, que estavam inibidos. Também mostra a existência de um princípio espiritual imediato que se faz presente, que pode ser traduzido como o abandono ao instinto do momento em direção à disponibilidade da revelação espiritual do presente, revelação de uma espiritualidade subjetiva impura .
Ou seja, a irracionalidade das motivações pode dirigir ao irracional de baixo, à demência, ou ao irracional de cima, à novidade criadora. A outra lei da psicologia das massas, segundo Tillich, é a lei da amplificação. Se a vida espiritual do indivíduo perde suas inibições, se tal fato se repete em cada indivíduo presente, como num alternador, o vivido por um, suscita em outro experiência idêntica, porque a massa vivencia ela própria o ser massa. Essa lei nos leva a dois aspectos da vida da alma, o aspecto emocional e o aspecto intelectual.
Em todo movimento da massa podemos observar a força do entusiasmo, a amplificação das paixões, da coragem, que podem levar ao seu sacrifício e destruição. Do lado intelectual, a lei da amplificação age de forma mais discreta, porque o processo de reflexão não convém à massa por causa de sua complexidade . De certo ponto de vista, explica Tillich, o indivíduo está mais alerta que a massa, mas a massa pode se elevar bem acima das consciências subjetivas, com suas intuições mais simples, mas também maiores e também com sua clarividência disso, que prepara o espírito objetivo no momento presente . A amplificação pode levar ao monumental e ao heroísmo, mas também ao demoníaco e à destruição. E as intuições da massa podem se conformar ao espírito ou lhe ser refratário.
As leis da psicologia das massas são leis naturais, afirma Tillich. Elas são sempre válidas e necessárias onde uma pluralidade se encontra reunida. Elas têm valor para todos os estamentos sociais, para um grupo de marginais, assim como para uma assembléia de nobres. Com ironia superior, elas regem uma reunião de convencidos individualistas, assim como explicam o sentimento de superioridade existente na palavra massa, quando usado como slogan . Segundo Paul Tillich, no conceito material de massa, a essência de um grupo de homens determinado é ser essencialmente formado conforme a psicologia das massas .
Por isso, no sentido histórico do termo, a massa, quer sejam classes ou ordens, raças ou círculos, partilha do destino de ser excluído de toda formação espiritual individual. Vemos, então, que para Tillich a imediaticidade da massa faz com que desabroche nela instintos biológicos que estavam inibidos no indivíduo, o que traz à tona um princípio espiritual imediato: a disponibilidade à revelação espiritual do momento presente.
Essa imediaticidade é o que leva a massa ao irracional de baixo, à demência, ou ao irracional de cima, à novidade criadora. Ao lado da imediaticidade, os aspectos emocional e intelectual são amplificados. As forças do entusiasmo e da coragem são amplificadas de tal modo que podem levá-la ao sacrifício e destruição. Assim, a massa se eleva acima das consciências individuais com intuições simples, mas com clarividência disso. Este processo prepara o espírito objetivo no momento presente. Quando objetivamente a massa vive esse processo de espiritualização, nela, religião e cultura se misturam. A esse primeiro momento de evolução da massa Tillich chama de massa mística.
No contexto geral de uma análise do socialismo, não se pode deixar de levar em conta que a evolução histórica dá nascimento a diferentes tipos de massa, conforme o modelo de desenvolvimento das relações entre religião e cultura. O primeiro estado consiste em uma unidade onde os dois ainda não se distinguem. Uma segunda etapa é marcada pela autonomia da cultura: assim, ela se diferencia mais e mais da religião, a ponto de gerar a secularidade moderna. Mas esta ruptura e separação são catastróficas tanto para a cultura como para a religião. E serão então superadas pela etapa final da teonomia, caracterizada pela presença de conteúdo religioso em todas as formas autônomas da cultura .
Podemos facilmente reconhecer os elementos desse esquema na descrição que Tillich faz dos diferentes tipos de massa. A massa mística corresponde à religião de origem: é a fusão dos indivíduos numa única comunidade que engloba tudo. Vem em seguida a etapa da autonomia, onde os indivíduos se diferenciam cada vez mais da comunidade de origem, até tornarem-se completamente independentes e separados. Mas ainda é massa sem forma e cultura, que não se colocou em movimento e caminhou para um estado de individualização. Essa é o estado de massa técnica ou mecânica, característico da moderna sociedade industrializada .
A partir daí surge a perspectiva de uma etapa final onde a massa e a individualidade pessoal formarão uma nova união, uma síntese nova, chamada massa orgânica, que corresponderá ao ideal da teonomia. Logicamente, nem sempre se caminhará em direção a este ideal: mas o tempo histórico que orienta nessa direção é o da massa dinâmica . Dessa maneira, para Tillich, a massa dinâmica é sempre revolucionária, não unicamente no sentido político do termo – inclusive este é o sentido menos freqüente --, mas sempre em um sentido de fé espiritual e social. É necessário que ela seja revolucionária, porque o sentido de seu movimento é precisamente ir além do estado de massa e todas as formas que são responsáveis por este regulamento .
Assim, para Tillich o movimento da massa dinâmica parte da massa mecânica e é essencialmente um movimento de libertação: o movimento da massa dinâmica parte da massa mecânica, já existente ou em perigo de aparecer, e visa a supressão da massa, visa à massa orgânica, não importando que esse começo seja ou não atendido.
Vemos aqui que Tillich tem uma compreensão diferente daquela de Gramsci, que entende a vanguarda enquanto intelectualidade orgânica, mas não vê a massa em processo dinâmico que pode levar ao surgimento de uma massa orgânica. Sem desejar fazer um confronto entre os dois pensadores, tocamos apenas no ponto que metodologicamente nos interessa: a vanguarda não se limita ao militante ou intelectual, é um processo maior que tem na massa orgânica uma dupla ação, de liderança da sociedade e de transformação da situação-limite.
Uma tal visão abre perspectivas interessantes na análise e compreensão de diferentes situações históricas, em especial do momento vivido pelo Brasil no final dos anos 70. A questão da transformação da sociedade, a luta pela democratização e a formação do Partido dos Trabalhadores são compreendidos melhor através do caminho metodológico construído por Paul Tillich em seus escritos socialista. E como ele afirmou, todas as questões convergem para uma mesma resposta: a humanidade deve ter origem nas profundezas de um novo conteúdo, onde será superada a oposição entre massa e personalidade. Onde um novo conteúdo será produto da graça e do destino.
3. O SOCIALISMO ENQUANTO UTOPIA FUNDANTE
3.1. Um sonho em construção
As abordagens teóricas Paul Tillich e de Enrique Dussel abrem perspectivas para a compreensão do socialismo e da análise de diferentes situações históricas, em especial do momento vivido no final dos anos 70 no Brasil. A questão da transformação da sociedade, a luta pela democratização e a formação do Partido dos Trabalhadores podem ser compreendidos através do caminho metodológico construído por Paul Tillich. A análise dos processos de evolução da massa, enquanto massa mística, dinâmica e, por fim, orgânica, nos ajuda a entender o processo que levou à convocação feita em 24 de janeiro de 1979, no IX Congresso dos Trabalhadores Metalúrgicos de São Paulo, na cidade de Lins, quando sindicalistas aprovam a tese apresentada pelos metalúrgicos de Santo André, chamando todos os trabalhadores brasileiros a se unificarem na construção de seu partido, o Partido dos Trabalhadores. Esse documento ficará conhecido como a Tese de Santo André-Lins.
Em 16 de junho de 1979, o jornal Versus, formado por intelectuais socialistas, perguntou: Que fenômeno é este, o do tal Partido dos Trabalhadores? E o próprio jornal apresentou aos seus leitores uma análise daquele partido que começava a surgir.
Antes que nada ele parte de um elemento, o desenvolvimento econômico e social dos últimos vinte anos, que geraram duas novas classes, uma classe operária industrial, altamente concentrada nos grandes centros urbanos e uma classe média assalariada moderna. Desde 1978, tanto os operários como esta classe média estão num processo de mobilização.
Essa combinação de fatores, o surgimento de estratos novos na sociedade e o conjuntural – um ano de mobilização – levam ao surgimento (ou condicionam o surgimento) de fenômenos novos na sociedade.
(...) A idéia do PT surge então de quatro fatores: (1) de uma nova realidade social; (2) das mobilizações e lutas que estão se dando há mais de um ano e que geram uma nova experiência, não somente sindical, mas democráticas e política; (3) a não existência de alternativas para esta nova vanguarda, que necessita expressar-se politicamente; e (4) de que esta necessidade se expressou através de algumas direções sindicais (...), que cumpriu um papel mais ideológico.
De toda a maneira, o Partido dos Trabalhadores não estava nos planos do governo. Sua intenção é de que todos os dirigentes sindicais classistas e autênticos, assim com o ativismo, estejam controlados pelo PTB ou o MDB. Esta é a única garantia para a burguesia, enquadrá-los e vencer o movimento de massas através de uma saída democrática controlada, entrilhando seu descontentamento para a luta estritamente parlamentar.
Na verdade a construção do PT passa por grandes dificuldades. Como os dirigentes sindicais chegaram à questão do PT através do classismo, como mediação entre a questão democrática e política, por uma necessidade, e não exatamente por um salto de consciência, o Partido dos Trabalhadores passa a ser de difícil concretização. Os dirigentes sindicais estão procurando um partido, algo que possa cumprir uma necessidade que têm. Como antes o projeto do PTB estava distante, eles começaram a baralhar a hipótese do PT, mas na medida em que o PTB venha a concretizar-se, aumenta a possibilidade de que os classistas aceitem esta alternativa. Já que á mais fácil entrar numa partido do que construir um.
Todo o processo novo que se dá a partir de mais de 1978 é muito rico porque combina e interliga muitas coisas, como o fato de que setores do movimento de massas se mobilizem a partir do sindical, mas também combinam o democrático e o político e geram uma importante vanguarda, mas se dá de forma desigual e combinada, mais ainda, não é um fenômeno ideológico, mas concreto.
Assim, diríamos que se dão, misturados, três níveis de consciência. Um primeiro mais amplo, que é o sindical-classista e que se traduz no surgimento de uma nova vanguarda classista, em sindicatos autênticos, chapas classistas de oposição, vencedoras, etc.
O segundo nível de consciência é o classista-político, o mais heterogêneo, que se traduz na compreensão empírica, vacilante e não claramente definida ainda, da necessidade de um partido sem patrões, que expresse as necessidades mais gerais da classe trabalhadora. Isto é laborismo.
E o terceiro nível de consciência seria o da consciência revolucionária, daqueles que entendem a necessidade de um partido socialista para a transformação da sociedade.
Sem entender que existem níveis diferentes de consciência e desigualdades não entenderemos o processo vivido pelo PT. A construção do Partido dos Trabalhadores depende dos próprios trabalhadores. A participação dos socialistas nesta construção pode ser fundamental, mas ainda assim é secundária. De todas as maneiras, caso se concretize o PT será talvez o maior salto que a classe operária brasileira já deu no processo de consolidação de sua consciência-para-si. E, um rombo efetivo nos planos de Figueiredo. Dezesseis de junho de mil novecentos e setenta e nove. Anno domini.
Estamos em março de 1979. O regime militar esta chegando ao fim semeando prisões, fome e morte. O autoritarismo se realiza como fetiche, já que a ditadura se ergue como critério de verdade, destruindo vidas humanas e a dignidade de milhões de brasileiros. Militantes, socialistas e sindicalistas levantam um princípio universal: o dever da construção de alternativas políticas próprias aos excluídos. Princípio este que é objetiva e subjetivamente negado pelo regime militar e pelo arbítrio. No ABC paulista a abertura lenta e gradual proposta pelo governo militar faz água.
Neste mês de março, 180 mil metalúrgicos entram em greve quando mal tinha chegado à presidência o general Figueiredo. O governo decreta a intervenção nos sindicatos e destitui seus dirigentes. Algumas semanas depois, volta atrás e revoga a intervenção. Sete meses depois, No dia 13 de outubro de 1979, 130 sindicalistas e militantes que representam seis estados da Federação, lançam o Movimento pelo Partido dos Trabalhadores, no salão de festas do restaurante São Judas Tadeu, em São Bernardo do Campo. Aprovam uma Declaração Política e uma Plataforma Política, que definem as reivindicações que o Movimento levantaria de imediato. Aprovam ainda as Normas transitórias de funcionamento e lançam uma Nota contra a reforma partidária proposta pelo governo. Elegem também uma Comissão Nacional Provisória, composta por 17 pessoas, para dirigir o Movimento até a fundação do PT.
No correr do ano seguinte, os sindicalistas, socialistas e cristãos de esquerda fundam o Partido dos Trabalhadores, Assim, no dia 10 de fevereiro de 1980, com a presença de 1200 pessoas, entre os quais intelectuais como Mário Pedroso, Sérgio Buarque de Holanda e Lélia Abramo, o Partido dos Trabalhadores realiza no Colégio Sion, em São Paulo, seu ato de fundação. Por aclamação é aprovado o Manifesto do partido, que é publicado no Diário Oficial da União de 21 de outubro do mesmo ano.
Meses depois, em reunião nacional de fundação do PT, que acontece no dia 1º de junho de 1980, no Instituto Sedes Sapientiae, em São Paulo, são aprovados o Programa de Ação e o Estatuto do Partido. Além de defender a liberdade de organização partidária e sindical, e pronunciar-se a favor de melhores condições de vida, o Plano de Ação defendeu também a reforma agrária, a independência nacional e deu seu apoio às lutas das mulheres, negros e índios.
No encontro realizado na Assembléia Legislativa de São Paulo, nos dias 8 e 9 de agosto de 1981, o PT “assume como bandeira central a luta contra o desemprego” e define que realizará “na segunda quinzena de setembro um Dia Nacional de Luta contra o Desemprego, apoiando todas as iniciativas do movimento popular no mesmo sentido”. Relacionando os problemas nacionais com a questão eleitoral, o PT declara que “luta por eleições livres e diretas em 1982 e 1984 e combate a fixação de regras que desvirtuem o caráter democrático do voto”.
3.2. Carta de Brasília
É dentro desse contexto que devemos entender as propostas de socialismo que se fazem presentes na formação do Partido dos Trabalhadores. Assim, no dia 27 de setembro de 1981, em Brasília, o PT realiza sua primeira Convenção oficial. Ele já estava legalizado em 16 estados. Em seu discurso, Lula, define o PT como partido socialista, é tal declaração é aprovada como documento básico do Partido dos Trabalhadores. “Há muita gente que pergunta: qual é a ideologia do PT. O que pensa o Pt sobre a sociedade futura? (...) Nós do PT sabemos que o mundo caminha para o socialismo. Os trabalhadores que tomaram a iniciativa histórica de propor a criação do PT já sabiam disto muito antes de terem sequer a idéia da necessidade do Partido. (...) O socialismo que nós queremos irá se definindo nas lutas do dia-a-dia, do mesmo modo como estamos construindo o PT. O socialismo que nós queremos terá que ser a emancipação dos trabalhadores. E a libertação dos trabalhadores será obra dos próprios trabalhadores”. Numa definição o bastante ampla para não entrar em choque com stalinistas, trotskistas e marxistas dos mais diferentes matizes, Lula prefere optar pela fórmula “o socialismo que nós queremos irá se definido nas lutas do dia-a-dia...”.
É interessante ver que, em 1980, Paul Singer afirmava que o socialismo que decorre das lutas atuais dos trabalhadores dos setores economicamente mais avançados constitui uma reformulação profunda do que se concebia como socialismo há apenas algumas décadas. A reformulação mais drástica é provavelmente a rejeição da idéia de que o socialismo deve ser implementado a partir da conquista do poder político, o que implicava a noção de que o socialismo seria, em essência, realizado por um poder político que a tanto se propusesse. A lógica do raciocínio se baseava no pressuposto de que o socialismo resultaria da socialização dos meios de produção, entendida como abolição da propriedade privada dos mesmos.
Ora, hoje, após diversas tentativas fracassadas de chegar ao socialismo desta maneira, sabemos que socializar só pode significar submeter os meios de produção ao controle coletivo do conjunto dos trabalhadores. Como vimos, porém, a natureza das forças produtivas atualmente disponíveis faz com que o controle imediato da produção social seja exercida por uma camada de técnicos e administradores – e enquanto isso tiver de ser assim a essência da socialização não consiste em subordinar formalmente esta camada a um poder dito proletário ou socialista, mas em submetê-las de fato à hegemonia da classe trabalhadora. Mas isso significa que, em lugar de conquistar o poder político, o que os socialistas têm de fazer é dividi-lo de tal modo que as decisões finais sejam tomadas, direta ou indiretamente, pela classe trabalhadora. Em outras palavras, a burguesia dividiu o poder político em três ramos – executivo, legislativo e judiciário – para impor sua hegemonia, o proletariado não pode reunifica-lo, a pretexto de conquista, sem acabar por ser dominado pelos que de fato o exercem.
(...)
Isso significa também que o âmbito da luta pelo socialismo é muito maior que o plano político convencional. Não é só o poder do Estado que tem de ser transformado, mas todo9 poder exercido autoritariamente: o do patrão na empresa, do professor na escola, do oficial no Exército, do padre na igreja, do dirigente no sindicato ou no partido e, por fim mas não por último, do pai na família. De todos estes, provavelmente a soberania do Estado e a autocracia patronal ou gerencial na empresa são as formas fundamentais do poder, cuja transformação condicional as demais. Mas nem por isso há qualquer razão para restringir a prática de libertação a estas duas instituições. A luta pelo socialismo requer a mobilização de toda a população e, portanto, as lutas antiautoritárias têm de ser suscitadas em todas as instituições no pressuposto, confirmado pela experiência, que as práticas de libertação tendem, em geral, a se reforçar mutuamente, na medida em que a legitimidade de todas é reconhecida, ao passo que a tentativa de se considerar uma luta específica como prioritária e contendo em si a solução das demais – “uma vez conquistado o poder e eliminada a propriedade privada dos meios de produção, tudo o mais se resolver sem atrito nem demora” -- só tende a dividir os movimentos de libertação e sectarizá-los.
O socialismo só será alcançado após uma extensa e vitoriosa prática de libertação, que abra caminho, ao mesmo tempo, ao desenvolvimento de novas forças produtivas e à socialização completa do trabalho intelectual.
3.3. Terra, trabalho e liberdade
Em seu 2º Encontro Nacional, realizado no Instituto Sedes Sapientiae, em São Paulo, nos dias 27 e 28 de março de 1982, o PT aprova Plataforma Eleitoral Nacional e afirma:
A campanha eleitoral do PT é muito diferente de todas as que nós, trabalhadores, participamos até hoje. É diferente porque temos o nosso Partido e escolhemos os nossos próprios candidatos; porque o PT combate a compra do voto, o cabo eleitoral e as promessas demagógicas. A campanha eleitoral do PT é diferente porque é, antes de tudo, uma grande campanha de mobilização e organização dos trabalhadores, a partir das principais reivindicações do movimento popular. A campanha eleitoral do PT é uma campanha de luta, quer dizer, uma campanha que se compromete com todas as lutas dos trabalhadores. Assumindo as principais reivindicações dos trabalhadores da cidade e do campo, lutamos para acabar com a fome e o desemprego, por melhores salários e terra para plantar e para morar, para que nossos direitos sejam respeitados no campo e na cidade, para sair de baixo da operação dos tubarões.
Numa linguagem direta e popular, o PT nesta plataforma para as eleições de 1982 mostra a triste realidade daqueles que se equilibram sobre baixos salários ou vivem a experiência desesperadora do desemprego.
Cada vez que você sai de casa para fazer compras, você se assusta com a alta dos preços. Qualquer dia, o seu salário não vai dar nem para um mísero quilo de feijão. Não é para menos, porque os salários não aumentam a cada dia, como aumentam os preços.
E se você é um camponês, a dureza é a mesma. Você se mata na plantação e, quando vai vender o que produziu, não dá nem para pagar o que gastou. Isso, se o grileiro já não lhe tomou a terra e você, sem achar trabalho no campo, não está agora aos trancos e barrancos, chegando à cidade para começar tudo de novo.
Pior ainda se você é um dos tantos desempregados deste país. Você deixou muito do seu suor produzindo para o patrão e, um belo dia, ele mandou você embora. Agora, sem salário, você não tem como garantir a comida na sua casa.
Para enfrentar esta situação, o PT faz algumas propostas: um salário mínimo unificado, que dê para garantir ao trabalhador e à trabalhadora uma vida decente, e que seja reajustado a cada três meses, na mesma medida da inflação; estabilidade no emprego; salário-desemprego; criação de uma cesta básica de alimentos a preço fixo, que o Estado – e não os grandes atacadistas – se encarregaria de comprar no campo e vender na cidade; redução de jornada de trabalho para 40 hora semanais, sem redução de salário.
3.4. Somos todos iguais
O Brasil que queremos não é apenas o povo comendo, morando, tendo saúde, vestindo e se educando. A vida que desejamos tem que ser baseada, sobretudo numa relação profundamente humana e fraterna, igualitária, entre as pessoas, sem nenhum tipo de discriminação.
E nesta questão a situação no Brasil é grave. A mulher é tratada como ser de segunda categoria. A ela cabem os piores empregos e os menores salários, além de estar submetida a dupla jornada de trabalho, pois acumula as tarefas de casa. A todo momento, é subjugada e humilhada, oprimida, não só como trabalhadora, mas também como mulher.
O preconceito de cor é real. Os negros não têm os mesmos direitos que os brancos e, antes de mais nada, são tidos como suspeitos e marginais. Os índios são tratados como débeis mentais, massacrados física e culturalmente, não sendo respeitadas nem mesmo as suas reservas de terras. Os homossexuais são humilhados e discriminados, tratados como doentes ou caso de polícia.
Exigimos igualdade nas leis que regem a família, o trabalho e a sociedade; o direito ao trabalho, à profissionalização e extensão dos direitos trabalhistas a todas as trabalhadoras, a exemplo das empregadas domésticas, e respeito ao direito de salário igual para trabalho igual.
3.5. O socialismo é a solução
Desde sua fundação, o PT afirmou o compromisso com a construção de uma sociedade sem explorados. Isto é, o seu compromisso com a construção de um Brasil socialista. E isto porque, tendo nascido das lutas dos trabalhadores, o PT desde o início percebeu que os meios de produção deveriam ser de propriedade social, servindo não aos interesses individuais de um ou de outro proprietário. Queremos uma sociedade em que os homens sejam valorizados e onde nenhum homem possa ter o direito de explorar o trabalho de outro. Uma sociedade em que cada um e todos possam ter iguais oportunidades para realizar suas potencialidades e aspirações.
Essas são as bases matriciais da formação do Partido dos Trabalhadores, onde o socialismo se colocou como utopia fundante. Até aqui chegamos. O que nos reserva o futuro e onde se situará a mito socialista na era Lula, esta já é outra questão.
Jorge Pinheiro, Toulouse, 2003.
Inscription à :
Articles (Atom)