mardi 29 mai 2012

Lembrando minha mãe

As lágrimas negadas

 

Os dois rapazes, armados, trombaram a velhinha. Arrancaram a bolsa e começaram a tirar tudo que tinha lá dentro. Tiraram a Bíblia, revolveram tudo, mas não acharam o que queriam: dinheiro.


-- Diz velha, onde está o dinheiro? Diz logo, senão a gente te apaga.


-- Meninos, por que vocês fazem isso? Vocês são tão bonitos...


A velhinha -- tinha mais de 70 anos -- pegou a Bíblia que estava nas mãos de um deles e encostou-a no peito.


-- Jesus muda tudo, faz tudo novo... Qualquer vida...


-- Deixa essa velha pra lá. Vamos embora, ela parece minha mãe.


Maria chegou em casa e contou a história como se fosse a coisa mais normal do mundo. Depois disse:


-- Vou orar por eles. Deus pode mudar a vida daqueles meninos.


O pai era atacadista de café nos ricos anos 20 nas Minas Gerais. Mas cedo foi morar no Rio de Janeiro, em Copacabana. Estudou no Sacré Coeur de Marie. O grande amor de sua vida foi meu pai, jornalista e socialista.


Mas o mundo dá voltas e Maria ficou viúva com dois filhos, Jorge e Alex. E aos poucos a herança foi virando fumaça. E aquela mulher, educada para ser dondoca, de fina cultura, lutou, batalhou para criar os dois meninos. Enfrentou momentos difíceis, sofreu um forte stress e tentou o suicídio, cortando os pulsos. Foi internada. E, no meio do desespero, uma voz suave falou ao seu coração.


Dez anos depois na morte de meu pai, Maria conheceu o Salvador, aquele que dá sentido à vida. Maria me lembra outra mulher, Mônica, mãe de Agostinho.


"É verdade que minha mãe, vivificada em Cristo, antes mesmo de ser livre dos laços da carne, viveu de tal modo, que Teu nome era louvado em sua fé e em seus costumes".[1]


Foi com Maria que aprendi o doce dom do amor. Eu, com minha cabeça materialista, ficava chocado, quando ela alimentava famintos ou cuidava de mendigos. Eu, adolescente, brigava com ela, dizia que era piegas, que isso não adiantava nada e outras tantas coisas. E Maria, com paciência, me respondia:


-- Um dia você vai entender.


Não, de forma nenhuma foi perfeita. De novo, me lembro das palavras de Agostinho sobre Mônica.


"Não me atrevo a dizer que desde que a regeneraste (...) não saiu de sua boca nenhuma palavra contrária a sua lei. Porque a Verdade, que é teu Filho, disse: Quem chamar a seu irmão de louco será réu do fogo da Geena. Ai da vida dos homens, por mais louvável que seja, se tu a julgares sem a tua misericórdia!".[2]


Minha mãe, Maria, morreu aos 87 anos, na quinta-feira, dia 27 de novembro de 2003. Pode parecer estranho, mas apesar do profundo amor que sempre nutri por ela e de toda a saudade que ficou, não chorei. Ao menos até agora, doze horas depois do sepultamento. Mais uma vez recorro a Agostinho.


"De fato, não julgávamos correto celebrar aquele funeral com lágrimas e choros, pois tais demonstrações deploravam geralmente o triste fim dos que morrem, ou sua total extinção. A morte de minha mãe não era uma desgraça, e ela não morria para sempre, e disto estávamos certos pelo testemunho de seus costumes. Por sua fé sincera e outras razões inequívocas".[3]


Há promessas...


Então vi um novo céu e uma nova terra. O primeiro céu e a primeira terra desapareceram, e o mar sumiu. E vi a Cidade Santa, a nova Jerusalém, que descia do céu. Ela vinha de Deus, enfeitada e preparada, vestida como uma noiva que vai se encontrar com o noivo. Ouvi uma voz forte que vinha do trono, a qual disse:


-- Agora a morada de Deus está entre os seres humanos! Deus vai morar com eles, e eles serão os povos dele. O próprio Deus estará com eles e será o Deus deles. Ele enxugará dos olhos deles todas as lágrimas. Não haverá mais morte, nem tristeza, nem choro, nem dor. As coisas velhas já passaram.


Aquele que estava sentado no trono disse:


-- Agora faço novas todas as coisas!


E também me disse:


-- Escreva isto, pois estas palavras são verdadeiras e merecem confiança.

E continuou:


-- Tudo está feito! Eu sou o Alfa e o Ômega, o Princípio e o Fim. A quem tem sede darei água para beber, de graça, da fonte da água da vida. Aqueles que conseguirem a vitória receberão de mim este presente: eu serei o Deus deles, e eles serão meus filhos.[4]


Eu creio nestas promessas! Até mais ver, querida mãe!




[1] Agostinho, Confissões, Livro Nono, Capítulo XIII, Preces pela mãe morta.
[2] Agostinho, idem.
[3] Agostinho, Confissões, Livro Nono, Capítulo XII, As lágrimas negadas.
[4] Apocalipse 21.1-7.

Extraído de:

Jorge Pinheiro, Teologia da Vida, uma paixão radical, São Paulo, Fonte Editorial, 2009.
Online nas boas livrarias.


Analogia e teologia


Alberto Strumìa

Il ricorso all'analogia in teologia si rende necessario per molteplici ragioni. Non potrebbe essere diversamente, in quanto la ragione umana, di per sé creaturale, può accostarsi al mistero di Dio solo conservando la distanza fra creatura e Creatore, riconoscendo cioè che si può parlare di Lui non certo in modo univoco, ma neanche equivoco, bensì “analogo”. Nel contesto di una metafisica dell'essere, l'analogia entis consente di accedere all'esistenza di Dio come fondamento dell'essere delle cose e di poter predicare di Dio attributi e perfezioni che si riconoscono presenti, in modo partecipato, nelle sue opere. Ma è lo stesso linguaggio della rivelazione divina, così come presentato dalla  Sacra Scrittura, a ricorrere all'analogia in varie delle sue forme sia proprie che improprie, come lo sono ad esempio la metafora, ma anche la “parabola”, per esprimere, servendosi di concetti umani, ciò che di per sé resterebbe trascendente ed inesprimibile. Il linguaggio analogico viene poi utilizzato dalla  teologia nel suo tentativo di accostarsi, mediante il ricorso ad immagini e paragoni, ai misteri della fede, ma anche per collegarli fra di loro, cogliendone così l'intima coerenza nel piano salvifico di Dio.

1. La conoscenza di Dio e i nomi divini. Le applicazioni dell’analogia alla teologia si collocano dunque a diversi livelli. Il primo problema che si pone è quello della conoscenza di Dio, sia al livello della sola ragione umana ( Dio, IV.1) che al livello della  fede che si fonda sulla conoscenza rivelata di Dio. La teologia ha percorso, tradizionalmente due vie a questo scopo: la prima è la via “apofatica” o “negativa”, tipica della tradizione dell’oriente cristiano, che pone l’accento sul fatto che di Dio possiamo conoscere con certezza ciò che “non è” piuttosto che quello che è. Seguendo questo approccio dalla nozione di Dio viene esclusa, ad esempio, la composizione e quindi la corporeità, la limitatezza, ogni forma di imperfezione, e così via. A questa teologia negativa l’occidente cristiano, trovando appoggio nel riferimento esplicito all'analogia contenuto nel Libro della Sapienza (cfr. Sap 13,5), ha affiancato una teologia “positiva” ( Sapienza, libro della, III.3). Basandosi sull’analogia di proporzione semplice, essa permette di riconoscere in Dio una somiglianza con le perfezioni che riscontriamo nelle creature, quali effetti il cui analogato principale è Dio stesso (cfr. Summa theologiae, I, q. 12). Si tratta di una approccio conoscitivo che certamente non dissolve il mistero in quanto, come ricorda il Concilio Lateranense IV, «fra il Creatore e la creatura, per quanto grande sia la somiglianza, maggiore è la differenza» (DH 806).

Un altro problema classico della teologia, strettamente legato a quello della conoscenza di Dio, è quello degli appellativi che si possono attribuire correttamente a Dio (“nomi divini”). Già trattata nel De divinis nominibus dallo pseudo-Dionigi, la tematica viene svolta compiutamente da Tommaso d’Aquino, il quale farà giocare ancora all'analogia un ruolo determinante. Anzitutto egli stabilisce che non vanno attribuiti a Dio i nomi che designano ciò che certamente Dio non è (imperfezioni e limiti ontologici e morali). Poi, dal momento che l’uomo si esprime necessariamente attraverso un linguaggio che denomina primariamente le creature, noi possiamo attribuire a Dio gli appellativi con i quali designiamo le perfezioni delle creature, ma solo analogicamente. Queste ultime, infatti, sono un effetto rispetto a Dio che ne è la causa, una causa che non è conosciuta da noi direttamente. Non possiamo parlarne univocamente perché Dio è una causa infinitamente superiore ai suoi effetti e trascende la loro natura, non rientrando in alcun genere; non equivocamente in quanto c’è un rapporto di causa-effetto, una relazione reale da parte delle creature nei confronti di Dio. Così i nomi delle perfezioni di Dio si dicono secondo un’analogia di proporzione essendo Dio l’analogato principale: quando si dice che Dio è “buono”, lo si dice più propriamente di Dio che è buono in se stesso, che delle creature che lo sono per partecipazione. Altri nomi vengono poi attribuiti a Dio solo metaforicamente: questo accade quando si designa una perfezione attraverso il nome della creatura che la possiede e si attribuisce a Dio il “nome della creatura” anziché quello della perfezione, intendendo riferirgli la perfezione. Ciò avviene ad esempio quando la Sacra Scrittura chiama Dio con gli appellativi di “roccia” o “leone” intendendo attribuirgli le perfezioni della roccia e del leone (cfr. Summa theologiae I, q. 13).

2. Esempi di analogia nella Scrittura. È proprio il linguaggio della Sacra Scrittura ad offrire, mediante i suoi diversi generi letterari, una notevole ricchezza di analogie e di metafore. Ciò è dovuto, come già segnalato, alla necessità di esprimere con parole umane che si rifanno all’uso di termini legati primariamente alle creature, dei contenuti che riguardano la realtà trascendente di Dio, che la sola ragione non potrebbe raggiungere e che non sono oggetto di esperienza comune. È Dio a comunicare il suo volere ed i suoi progetti mediante immagini che fanno appello all'analogia. Ad Abramo si chiede di capire l'estensione della discendenza di cui è chiamato ad essere padre fecendo, se può, un'analogia con l'immenso numero delle stelle del cielo e della sabbia del mare (cfr. Gen 15,5 e 22,17). Il profeta Geremia, un esempio fra i molti possibili, invitato da Dio a guardare come un vasaio modella e quindi distrugge l'opera delle sue mani, per rifarla poi nuovamente, deve così comprendere, per analogia, il rinnovamento che Dio compirà con la casa di Israele (Ger 18,1-4). Saranno poi i profeti stessi a parlare al popolo mediante numerose immagini ed analogie, servendosi di quanto accade nella natura, nella storia personale o nella storia dei popoli (Ez 31,1-14; Os 1,2-9; Dan 2,31-45).

Gesù impiegherà con frequenza il linguaggio delle “parabole” per descrivere, con immagini efficaci e coerenti, la realtà del Regno, al fine di renderlo comprensibile ai suoi ascoltatori. L’espressione «Il Regno dei Cieli [o di Dio] è simile a…» è di uso ricorrente nei Vangeli (cfr. Mt 13,1-51; Mc 4,1-34; Lc 8,4-18). Questo paragone si fonda su un’analogia di proporzionalità. L'impiego di immagini e di metafore istituisce una similitudine tra una realtà nota ed una ignota, o di più difficile comprensione, favorendo la trasposizione di proprietà o di relazioni dall'immagine più nota a quella meno nota. La parabola viene più spesso rappresentata sotto forma di un racconto la cui forza argomentativa consiste nel presentare la narrazione di un fatto — spesso non accaduto, ma verosimile — che l’ascoltatore può comprendere bene e a partire dal quale è indotto, dalla logica, a trarre certe conclusioni. Le conclusioni tratte, in forza dell’analogia, vengono poi applicate anche in questo caso alla realtà inizialmente ignota per farne comprendere alcuni aspetti fondamentali. Il linguaggio delle metafore e delle parabole, o se si preferisce della “narrazione”, è particolarmente confacente alla persona umana, immersa in una storia ove, al di là di molti elementi cangianti, è sempre possibile identificare una serie di relazioni stabili fra l'uomo e le cose, o degli uomini fra di loro, che possono essere utilizzate come coordinate logiche, cosmologiche ed antropologiche, per trasmettere un certo messaggio. Non sorprende pertanto che la Parola di Dio, che di tale struttura conoscitiva e comunicativa ne ha assunto, insieme all'umanità del Verbo, la storia e la logica, vi ricorra come ad una sorta di “linguaggio umano fondamentale”.

Da un punto di vista ermeneutico, il linguaggio analogico mostra nella Scrittura un utilizzo specifico, riconoscibile ad esempio da quello del linguaggio simbolico, pur largamente presente. Nel primo caso è sempre presente un analogato, mentre nel secondo siamo in presenza di un rimando operato oltre i limiti del linguaggio umano, di un segno che indica una realtà diversa da quella conosciuta, cui dirigersi con categorie nuove, non analoghe. Da un punto di vista più generale, va osservato che il  simbolo resta incompleto senza l'ausilio dell'analogia. Sebbene più flessibile perché libero dal riferimento ad un analogato, esso corre il rischio di rimandare costantemente fuori di sé, verso altri simboli ancora, lasciando sempre sfuggire l'ultimo orizzonte di comprensione.

3. Utilizzi dell'analogia in teologia. Un uso frequente dell'analogia in teologia lo incontriamo in ecclesiologia, a proposito delle “figure della Chiesa” (cfr. ad es. l’impiego fattone dal Magistero nella Lumen gentium, 6). Il mistero della Chiesa, che trae la sua origine dal mistero della volontà salvifica di Dio Padre, rivelata e compiuta mediante le missioni del Figlio e dello Spirito Santo, partecipa della ricchezza e trascendenza di Dio. Per essere espressa, la realtà della Chiesa necessita anch'essa di analogie di proporzionalità intrinseca od estrinseca. Basandosi su un fondamento biblico e sulla predicazione dei Padri della Chiesa, la teologia propone una serie di immagini: la Chiesa è un gregge guidato da un pastore, la vigna del Signore, una casa edificata sulla pietra angolare che è Cristo, il regno, la famiglia e la dimora di Dio, ma soprattutto è il popolo di Dio e il Corpo di Cristo. Di quest'ultima analogia, verrà osservato, si deve però predicare in senso proprio e non solo metaforico (cfr. Lumen gentium, 7; Pio XII, Mystici corporis, 29.6.1943). Il rapporto fra Cristo e la sua Chiesa viene inoltre paragonato a quello dello sposo con la sua sposa, ma anche a quello del capo con il suo corpo. La particolarità di tali immagini analogiche sta nel fatto che nessuna di esse, da sola, risulterebbe adeguata ad esprimere il mistero della Chiesa (visibile ed invisibile; terrena ed eterna; una, eppure presente in molti luoghi; distinta dal suo sposo, eppure una sola cosa con il suo Capo...), mentre tutte insieme possono concorrere a delucidarne caratteri e proprietà.

Esempi classici di applicazioni dell’analogia sono quelli che si riferiscono alla dottrina sui sacramenti: essi vengono paragonati, quali tappe della “vita cristiana”, alle varie fasi della “vita naturale”, sia personale che sociale, secondo un’analogia di proporzionalità propria. Così il Battesimo è come la “nascita” nella vita cristiana, la Confermazione come il “farsi adulto” del battezzato,  l’Eucaristia come il “cibarsi” per il cammino della vita spirituale, e così via (cfr. ad es. Summa theologiae, III, q. 65). Nella vita della grazia poi, il peccato è paragonato alla morte, perché ne vengano intesi gli effetti sull’ anima spirituale, in analogia con quanto la morte determina sul piano corporale. Pur con i limiti propri di qualsiasi paragone, si tratta di utilizzi che hanno senza dubbio favorito la comprensione dei misteri della fede e facilitato la loro trasmissione.

All'interno dei rapporti fra fede e pensiero scientifico, meritano interesse quelle analogie teologiche impiegate lungo la storia per comprendere il rapporto fra la fede e la ragione o, anche, fra la filosofia e la teologia. Nel pensiero medievale si è parlato della filosofia come ancella della teologia. Non di rado presentato in modo riduttivo e strumentale, tale paragone suscitò la reazione ironica di Kant, il quale osservò che l'ancella avrebbe dovuto in realtà precedere la sua signora, come una torcia, per illuminarle la strada. Ma il rapporto fra la fede e la ragione è stato anche visto come una relazione sponsale, sulla scorta di un'immagine già usuale per descrivere il rapporto fra natura e grazia, riservando tuttavia una maggiore dignità alla fede-sposo. La teologia contemporanea parla volentieri dell'analogia mariologica e di quella cristologica. Seguendo la prima analogia, la fede-parola-Spirito viene accolta dalla ragione-ascolto-Maria, generando il frutto della teologia, qui indicata in senso forte come sapienza che partecipa, in forza della Rivelazione, della Sapienza increata che è Cristo. Nella analogia cristologica, la ragione e la fede sono viste in rapporto come lo sono la natura umana e la natura divina nella persona del Verbo di Dio fatto uomo ( Gesù Cristo, rivelazione e incarnazione del Logos). Come l'umanità di Cristo offre espressione visibile e storica alla natura e alla Persona divine, così la filosofia e la ragione offrono alla teologia e alla fede il linguaggio necessario per esprimere, in modo evidentemente limitato ed incompleto, però vero, ciò che si conosce per fede, ed appartiene perciò alla trascendenza di Dio.

Dal punto di vista della storia della teologia e dei suoi rapporti col pensiero scientifico, va menzionato il saggio di Joseph Butler (1692-1752) L'Analogia della Religione, naturale e rivelata, con la costituzione e il corso della natura (1736), nel quale l'autore presenta il corso della natura e della storia umana come una grande analogia per comprendere il linguaggio ed il significato della Rivelazione cristiana. L'opera diverrà poi famosa per il grande influsso che eserciterà sul pensiero di  John Henry Newman (1801-1890), che riserverà al lavoro del vescovo anglicano numerose citazioni in quasi tutti i suoi libri.

4. L’analogia fidei. Un significato diverso, almeno nella sua origine, da quello che interviene nella filosofia aristotelico-tomista, si rinviene nell’espressione analogia fidei o “analogia della fede”. Questa espressione è presente, originariamente, nella lettera ai Romani dell’apostolo Paolo («Chi ha il dono della profezia la eserciti secondo la misura della fede», Rm 12,6), ove il termine greco analoghía viene impiegato nel senso di “misura”, o “proporzione”. Nella tradizione cattolica questa espressione ha assunto carattere tecnico ad indicare l’adeguatezza e l’armoniosa proporzione tra le verità della fede che non possono entrare in conflitto fra loro. Il Catechismo della Chiesa Cattolica, la definisce oggi nel modo seguente: «Per “analogia della fede” intendiamo la coesione delle verità della fede tra loro e nella totalità del progetto della Rivelazione» (CCC 114). Essa guida nell’interpretazione dell’antico testamento alla luce del nuovo, nella comprensione organica e unitaria di tutto il Magistero, nell’elaborazione della teologia alla luce della tradizione. Essa è fondamentale per una corretta comprensione dello “sviluppo del dogma” che non va inteso come un mutamento del contenuto di verità, ma come un’approfondimento coerente della comprensione della medesima verità rivelata (fonti classiche della comprensione di tale sviluppo in Vincenzo di Lerins, Commonitorium, 53: PL 50, 668; per la teologia, esposizione ragionata in Newman, Lo sviluppo della dottrina cristiana, 1845).

La teologia dei riformatori, specie con Karl Barth (1886-1868) ha fatto uso dell’espressione analogia fidei per indicare nella divina rivelazione l’unica fonte di conoscenza di Dio, contrapponendola alla analogia entis intesa come fondamento della via percorsa dalla ragione naturale per una conoscenza non rivelata di Dio che, nella visione luterana, è negata in radice ( Lutero). Rifiutando la possibilità di una conoscenza analogica di Dio partendo dal creato, tali autori cercano di fondare la possibilità e l'intelligibilità della Rivelazione unicamente sul dono della grazia: «I nostri concetti e i nostri termini umani — affema Barth —, in quanto nostri, sono totalmente incapaci di esprimere Dio e il suo mistero; la loro possibilità di essere veri viene loro soltanto dalla rivelazione». Per Barth, di Dio si può dire soltanto ciò che Dio stesso dice di Sé, cioè solo la sua Parola, il Cristo. Va tuttavia osservato che tale prospettiva non risolve in modo convincente il problema di fondare l'intelligibilità e la comprensione della parola rivelata, in quanto, sebbene aiutati dalla grazia, la nostra comprensione di Dio continuerà ad esprimersi con le parole del nostro linguaggio, perché le uniche disponibili. In definitiva, non si potrà mai prescindere dalla necessità dell'analogia dell'essere: «se il Cristo può utilizzare tutte le risorse dell'universo creato per farci conoscere Dio e i costumi divini, è perché la parola creatrice ha preceduto ed è il fondamento della parola rivelatrice, ed è perché l'una e l'altra hanno come principio la stessa Parola interiore di Dio. La rivelazione del Cristo suppone la verità dell'analogia» (R. Latourelle, Teologia della Rivelazione, Assisi 1986, p. 425).

Analogia
Alberto Strumìa
http://www.albertostrumia.it/articoli/interdisciplina/inart004.pdf
http://www.albertostrumia.it/presentazioni/Matematica/Matematica_web.pdf
Fontes:
Concilio Lateranense IV, DH 806; Concilio Vaticano I, DH 3016; Providentissimus Deus, DH 3283; Divino afflante Spiritu, DH 3826; Humani generis, DH 3887; Dei Verbum, 12; Fides et ratio, 19.