Alberto Strumìa
Il ricorso all'analogia in teologia si rende
necessario per molteplici ragioni. Non potrebbe essere diversamente, in quanto
la ragione umana, di per sé creaturale, può accostarsi al mistero di Dio solo
conservando la distanza fra creatura e Creatore, riconoscendo cioè che si può
parlare di Lui non certo in modo univoco, ma neanche equivoco, bensì “analogo”.
Nel contesto di una metafisica dell'essere, l'analogia entis consente di accedere all'esistenza di Dio come
fondamento dell'essere delle cose e di poter predicare di Dio attributi e
perfezioni che si riconoscono presenti, in modo partecipato, nelle sue opere.
Ma è lo stesso linguaggio della rivelazione divina, così come presentato dalla
Sacra Scrittura, a ricorrere
all'analogia in varie delle sue forme sia proprie che improprie, come lo sono
ad esempio la metafora, ma anche la “parabola”, per esprimere, servendosi di
concetti umani, ciò che di per sé resterebbe trascendente ed inesprimibile. Il
linguaggio analogico viene poi utilizzato dalla
teologia nel suo tentativo di
accostarsi, mediante il ricorso ad immagini e paragoni, ai misteri della fede,
ma anche per collegarli fra di loro, cogliendone così l'intima coerenza nel
piano salvifico di Dio.


1. La conoscenza di Dio e i nomi divini. Le
applicazioni dell’analogia alla teologia si collocano dunque a diversi livelli.
Il primo problema che si pone è quello della conoscenza di Dio, sia al livello
della sola ragione umana (
Dio,
IV.1) che al livello della
fede che si fonda sulla conoscenza
rivelata di Dio. La teologia ha percorso, tradizionalmente due vie a questo
scopo: la prima è la via “apofatica” o “negativa”, tipica della tradizione
dell’oriente cristiano, che pone l’accento sul fatto che di Dio possiamo
conoscere con certezza ciò che “non è” piuttosto che quello che è. Seguendo
questo approccio dalla nozione di Dio viene esclusa, ad esempio, la
composizione e quindi la corporeità, la limitatezza, ogni forma di imperfezione,
e così via. A questa teologia negativa l’occidente cristiano, trovando appoggio
nel riferimento esplicito all'analogia contenuto nel Libro della Sapienza (cfr. Sap 13,5), ha affiancato una teologia “positiva” (
Sapienza,
libro della, III.3). Basandosi sull’analogia di proporzione semplice,
essa permette di riconoscere in Dio una somiglianza con le perfezioni che
riscontriamo nelle creature, quali effetti il cui analogato principale è Dio
stesso (cfr. Summa theologiae,
I, q. 12). Si tratta di una approccio conoscitivo che certamente non dissolve
il mistero in quanto, come ricorda il Concilio Lateranense IV, «fra il Creatore
e la creatura, per quanto grande sia la somiglianza, maggiore è la differenza»
(DH 806).



Un
altro problema classico della teologia, strettamente legato a quello della
conoscenza di Dio, è quello degli appellativi che si possono attribuire
correttamente a Dio (“nomi divini”). Già trattata nel De divinis nominibus dallo pseudo-Dionigi, la tematica viene
svolta compiutamente da Tommaso d’Aquino, il quale farà giocare ancora
all'analogia un ruolo determinante. Anzitutto egli stabilisce che non vanno attribuiti a Dio i nomi che
designano ciò che certamente Dio non è (imperfezioni e limiti ontologici e
morali). Poi, dal momento che l’uomo si esprime necessariamente attraverso un
linguaggio che denomina primariamente le creature, noi possiamo attribuire a
Dio gli appellativi con i quali designiamo le perfezioni delle creature, ma
solo analogicamente. Queste ultime, infatti, sono un effetto rispetto a Dio che
ne è la causa, una causa che non è conosciuta da noi direttamente. Non possiamo
parlarne univocamente perché Dio è una causa infinitamente superiore ai suoi effetti
e trascende la loro natura, non rientrando in alcun genere; non equivocamente
in quanto c’è un rapporto di causa-effetto, una relazione reale da parte delle creature nei confronti
di Dio. Così i nomi delle perfezioni di Dio si dicono secondo un’analogia di
proporzione essendo Dio l’analogato principale: quando si dice che Dio è
“buono”, lo si dice più propriamente di Dio che è buono in se stesso, che delle
creature che lo sono per partecipazione. Altri nomi vengono poi attribuiti a
Dio solo metaforicamente: questo accade quando si designa una perfezione
attraverso il nome della creatura che la possiede e si attribuisce a Dio il
“nome della creatura” anziché quello della perfezione, intendendo riferirgli la perfezione. Ciò avviene ad esempio quando la Sacra Scrittura
chiama Dio con gli appellativi di “roccia” o “leone” intendendo attribuirgli le
perfezioni della roccia e del leone (cfr. Summa theologiae I, q. 13).
2. Esempi di analogia nella Scrittura. È
proprio il linguaggio della Sacra Scrittura ad offrire, mediante i suoi diversi
generi letterari, una notevole ricchezza di analogie e di metafore. Ciò è
dovuto, come già segnalato, alla necessità di esprimere con parole umane che si
rifanno all’uso di termini legati primariamente alle creature, dei contenuti
che riguardano la realtà trascendente di Dio, che la sola ragione non potrebbe
raggiungere e che non sono oggetto di esperienza comune. È Dio a comunicare il
suo volere ed i suoi progetti mediante immagini che fanno appello all'analogia.
Ad Abramo si chiede di capire l'estensione della discendenza di cui è chiamato
ad essere padre fecendo, se può, un'analogia con l'immenso numero delle stelle
del cielo e della sabbia del mare (cfr. Gen
15,5 e 22,17). Il profeta Geremia, un esempio fra i molti possibili, invitato
da Dio a guardare come un vasaio modella e quindi distrugge l'opera delle sue
mani, per rifarla poi nuovamente, deve così comprendere, per analogia, il
rinnovamento che Dio compirà con la casa di Israele (Ger 18,1-4). Saranno poi i profeti stessi a parlare al popolo
mediante numerose immagini ed analogie, servendosi di quanto accade nella
natura, nella storia personale o nella storia dei popoli (Ez 31,1-14; Os 1,2-9; Dan
2,31-45).
Gesù
impiegherà con frequenza il linguaggio delle “parabole” per descrivere, con
immagini efficaci e coerenti, la realtà del Regno, al fine di renderlo
comprensibile ai suoi ascoltatori. L’espressione
«Il Regno dei Cieli [o di Dio] è simile a…» è di uso ricorrente nei
Vangeli (cfr. Mt 13,1-51; Mc
4,1-34; Lc 8,4-18). Questo
paragone si fonda su un’analogia di proporzionalità. L'impiego di immagini e di
metafore istituisce una similitudine tra una realtà nota ed una ignota, o di
più difficile comprensione, favorendo la trasposizione di proprietà o di
relazioni dall'immagine più nota a quella meno nota. La parabola viene più
spesso rappresentata sotto forma di un racconto la cui forza argomentativa
consiste nel presentare la narrazione di un fatto — spesso non accaduto,
ma verosimile — che l’ascoltatore può comprendere bene e a partire dal
quale è indotto, dalla logica, a trarre certe conclusioni. Le conclusioni
tratte, in forza dell’analogia, vengono poi applicate anche in questo caso alla
realtà inizialmente ignota per farne comprendere alcuni aspetti fondamentali.
Il linguaggio delle metafore e delle parabole, o se si preferisce della
“narrazione”, è particolarmente confacente alla persona umana, immersa in una
storia ove, al di là di molti elementi cangianti, è sempre possibile
identificare una serie di relazioni stabili fra l'uomo e le cose, o degli
uomini fra di loro, che possono essere utilizzate come coordinate logiche,
cosmologiche ed antropologiche, per trasmettere un certo messaggio. Non sorprende
pertanto che la Parola di Dio, che di tale struttura conoscitiva e comunicativa
ne ha assunto, insieme all'umanità del Verbo, la storia e la logica, vi ricorra
come ad una sorta di “linguaggio umano fondamentale”.

Da un punto di vista ermeneutico, il
linguaggio analogico mostra nella Scrittura un utilizzo specifico,
riconoscibile ad esempio da quello del linguaggio simbolico, pur largamente
presente. Nel primo caso è sempre presente un analogato, mentre nel secondo
siamo in presenza di un rimando operato oltre i limiti del linguaggio umano, di
un segno che indica una realtà diversa da quella conosciuta, cui dirigersi con
categorie nuove, non analoghe. Da un punto di vista più generale, va osservato
che il
simbolo resta incompleto senza
l'ausilio dell'analogia. Sebbene più flessibile perché libero dal riferimento
ad un analogato, esso corre il rischio di rimandare costantemente fuori di sé,
verso altri simboli ancora, lasciando sempre sfuggire l'ultimo orizzonte di
comprensione.

3. Utilizzi
dell'analogia in teologia. Un uso
frequente dell'analogia in teologia lo incontriamo in ecclesiologia, a
proposito delle “figure della Chiesa” (cfr. ad es. l’impiego fattone dal
Magistero nella Lumen gentium,
6). Il mistero della Chiesa, che trae la sua origine dal mistero della volontà
salvifica di Dio Padre, rivelata e compiuta mediante le missioni del Figlio e
dello Spirito Santo, partecipa della ricchezza e trascendenza di Dio. Per essere
espressa, la realtà della Chiesa necessita anch'essa di analogie di
proporzionalità intrinseca od estrinseca. Basandosi su un fondamento biblico e
sulla predicazione dei Padri della Chiesa, la teologia propone una serie di
immagini: la Chiesa è un gregge guidato da un pastore, la vigna del Signore,
una casa edificata sulla pietra angolare che è Cristo, il regno, la famiglia e
la dimora di Dio, ma soprattutto è il popolo di Dio e il Corpo di Cristo. Di quest'ultima analogia, verrà osservato, si
deve però predicare in senso proprio e non solo metaforico (cfr. Lumen gentium, 7; Pio XII, Mystici corporis, 29.6.1943). Il
rapporto fra Cristo e la
sua Chiesa viene inoltre paragonato a quello dello sposo con
la sua sposa, ma anche a quello del capo con il suo corpo. La particolarità di
tali immagini analogiche sta nel fatto che nessuna di esse, da sola,
risulterebbe adeguata ad esprimere il mistero della Chiesa (visibile ed
invisibile; terrena ed eterna; una, eppure presente in molti luoghi; distinta
dal suo sposo, eppure una sola cosa con il suo Capo...), mentre tutte insieme
possono concorrere a delucidarne caratteri e proprietà.
Esempi
classici di applicazioni dell’analogia sono quelli che si riferiscono alla
dottrina sui sacramenti: essi vengono paragonati, quali tappe della “vita
cristiana”, alle varie fasi della “vita naturale”, sia personale che sociale,
secondo un’analogia di proporzionalità propria. Così il Battesimo è come la
“nascita” nella vita cristiana, la Confermazione come il “farsi adulto” del battezzato,
l’Eucaristia come il “cibarsi” per il
cammino della vita spirituale, e così via (cfr. ad es. Summa theologiae, III, q. 65). Nella vita della grazia poi, il peccato
è paragonato alla morte, perché ne vengano intesi gli effetti sull’
anima spirituale, in analogia con quanto
la morte determina sul piano corporale. Pur con i limiti propri di qualsiasi
paragone, si tratta di utilizzi che hanno senza dubbio favorito la comprensione
dei misteri della fede e facilitato la loro trasmissione.


All'interno
dei rapporti fra fede e pensiero scientifico, meritano interesse quelle
analogie teologiche impiegate lungo la storia per comprendere il rapporto fra
la fede e la ragione o, anche, fra la filosofia e la teologia. Nel
pensiero medievale si è parlato della filosofia come ancella della teologia.
Non di rado presentato in modo riduttivo e strumentale, tale paragone suscitò
la reazione ironica di Kant ,
il quale osservò che l'ancella
avrebbe dovuto in realtà precedere la sua signora, come una torcia, per
illuminarle la strada. Ma
il rapporto fra la fede e la ragione è stato anche visto come una relazione
sponsale, sulla scorta di un'immagine già usuale per descrivere il rapporto fra
natura e grazia, riservando tuttavia una maggiore dignità alla fede-sposo. La
teologia contemporanea parla volentieri dell'analogia mariologica e di quella
cristologica. Seguendo la prima analogia, la fede-parola-Spirito viene accolta
dalla ragione-ascolto-Maria, generando il frutto della teologia, qui indicata
in senso forte come sapienza che partecipa, in forza della Rivelazione, della
Sapienza increata che è Cristo. Nella analogia cristologica, la ragione e la
fede sono viste in rapporto come lo sono la natura umana e la natura divina
nella persona del Verbo di Dio fatto uomo (
Gesù
Cristo, rivelazione e incarnazione del
Logos). Come l'umanità di Cristo offre espressione visibile e storica
alla natura e alla Persona divine, così la filosofia e la ragione offrono alla
teologia e alla fede il linguaggio necessario per esprimere, in modo
evidentemente limitato ed incompleto, però vero, ciò che si conosce per fede,
ed appartiene perciò alla trascendenza di Dio.

Dal punto
di vista della storia della teologia e dei suoi rapporti col pensiero
scientifico, va menzionato il saggio di Joseph Butler (1692-1752) L'Analogia della Religione, naturale e
rivelata, con la costituzione e il corso della natura (1736), nel quale l'autore presenta il corso della
natura e della storia umana come una grande analogia per comprendere il
linguaggio ed il significato della Rivelazione cristiana. L'opera diverrà poi
famosa per il grande influsso che eserciterà sul pensiero di
John Henry Newman (1801-1890), che
riserverà al lavoro del
vescovo anglicano numerose citazioni in quasi tutti i suoi libri.

4. L’analogia fidei. Un significato diverso, almeno nella sua
origine, da quello che interviene nella filosofia aristotelico-tomista, si
rinviene nell’espressione analogia
fidei o “analogia della fede”. Questa espressione è presente,
originariamente, nella lettera ai Romani dell’apostolo Paolo («Chi ha il dono
della profezia la eserciti secondo la misura della fede», Rm 12,6), ove il termine greco analoghía viene impiegato nel senso
di “misura”, o “proporzione”. Nella tradizione cattolica questa espressione ha
assunto carattere tecnico ad indicare l’adeguatezza e l’armoniosa proporzione
tra le verità della fede che non possono entrare in conflitto fra loro. Il Catechismo della Chiesa Cattolica, la
definisce oggi nel modo seguente: «Per “analogia della fede” intendiamo la
coesione delle verità della fede tra loro e nella totalità del progetto della
Rivelazione» (CCC 114). Essa guida nell’interpretazione dell’antico testamento
alla luce del nuovo, nella comprensione organica e unitaria di tutto il
Magistero, nell’elaborazione della teologia alla luce della tradizione. Essa è
fondamentale per una corretta comprensione dello “sviluppo del dogma” che non
va inteso come un mutamento del contenuto di verità, ma come un’approfondimento
coerente della comprensione della medesima verità rivelata (fonti classiche
della comprensione di tale sviluppo in Vincenzo di Lerins, Commonitorium, 53: PL 50, 668; per la
teologia, esposizione ragionata in Newman, Lo sviluppo della dottrina cristiana, 1845).
La
teologia dei riformatori, specie con Karl Barth (1886-1868) ha fatto uso
dell’espressione analogia fidei
per indicare nella divina rivelazione l’unica fonte di conoscenza di Dio,
contrapponendola alla analogia entis
intesa come fondamento della via percorsa dalla ragione naturale per una
conoscenza non rivelata di Dio che, nella visione luterana, è negata in radice
(
Lutero).
Rifiutando la possibilità di una conoscenza analogica di Dio partendo dal
creato, tali autori cercano di fondare la possibilità e l'intelligibilità della
Rivelazione unicamente sul dono della grazia: «I nostri concetti e i nostri
termini umani — affema Barth —, in quanto nostri, sono totalmente
incapaci di esprimere Dio e il suo mistero; la loro possibilità di essere veri
viene loro soltanto dalla rivelazione». Per Barth, di Dio si può dire soltanto
ciò che Dio stesso dice di Sé, cioè solo la sua Parola , il Cristo.
Va tuttavia osservato che tale prospettiva non risolve in modo convincente il
problema di fondare l'intelligibilità e la comprensione della parola rivelata,
in quanto, sebbene aiutati dalla grazia, la nostra comprensione di Dio
continuerà ad esprimersi con le parole del nostro linguaggio, perché le uniche
disponibili. In definitiva, non si potrà mai prescindere dalla necessità
dell'analogia dell'essere: «se il Cristo può utilizzare tutte le risorse
dell'universo creato per farci conoscere Dio e i costumi divini, è perché la
parola creatrice ha preceduto ed è il fondamento della parola rivelatrice, ed è
perché l'una e l'altra hanno come principio la stessa Parola
interiore di Dio. La rivelazione del Cristo suppone la verità dell'analogia»
(R. Latourelle, Teologia della
Rivelazione, Assisi 1986, p. 425).

Analogia
Alberto Strumìa
http://www.albertostrumia.it/articoli/interdisciplina/inart004.pdf
http://www.albertostrumia.it/presentazioni/Matematica/Matematica_web.pdf
Fontes:
Concilio
Lateranense IV, DH 806; Concilio Vaticano I, DH 3016; Providentissimus
Deus, DH 3283; Divino afflante Spiritu, DH 3826; Humani generis, DH 3887;
Dei Verbum, 12; Fides et ratio, 19.
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